Il segno insuperabile. Dal tratto alla parola e ritorno
Biancamaria Monticelli, "I giganti del mare", Aranui, Isole Marchesi 2018

Il segno insuperabile. Dal tratto alla parola e ritorno

diStefano Iori

Joan Miró (1893-1983) caratterizza i propri dipinti con pennellate/linee che definiscono embrioni di forme. La pittura classica è sbriciolata, sebbene le opere dell'autore catalano mantengano una geometria costruttiva essenzialmente derivata dall'accademia. Tratti decisi a definire omuncoli tremolanti e ritratti che paiono usciti dalla fantasia di un vecchio e saggio bambino. Tali segni, perlopiù neri, si sovrappongono a coloriture accese; sempre le esaltano, anche se paiono relegarle nella dimensione dello sfondo. Il dinamismo di Mirò suscita in chi osserva un moto di lettura visiva che mette in connessione, in un andirivieni di impulsi nervosi che accelerano le sinapsi, il segno in primo piano ai colori accesi e alle mini-forme in apparente sottofondo. Gli elementi costitutivi del dipinto, si intrecciano e sovrappongono, all'infinito, agendo visivamente, muovendo, nel cortocircuito di piani visivi, il tessuto complessivo dell'opera. Emerso e sommerso sono ombre della medesima natura, definite solo da nettezza o sbavatura del tratto.

I dipinti di ogni epoca hanno sempre evocato la parola, spesso alludendo alla forma letteraria del racconto, sussurrandone l'ipotetica trama. Le immagini classiche, e poi quelle dei realisti, pongono domande, portano sulla soglia dell'ignoto la cui voce si leva sempre per prima a innescare il dialogo con l'umano. L'arte di Mirò afferma con vigore il segno-voce. Lo traccia e lo dice espressamente lasciando esplodere il controcanto dell'osservatore. Dal morbido congelamento delle forme del classicismo e dalla litania medievale sgorga il vociare del Secolo breve.



Disegni e dipinti possono contenere segni precisi o segni allusivi che in modo diverso evocano (suggeriscono) la parola. Il discorso del segno cambia il proprio nome grazie al controcanto di chi osserva, divenendo stile.

Il segno può essere celato sino a lasciarne solo tracce rarefatte. È il caso di alcune opere di Giulia Napoleone (1936), quelle che, nello sfiorare l'omogenea stesura di un solo colore, creano un nuovo microcosmo, differente, differito in chissà quale universo, sospinto e poi posato oltre un velo, là dove si trova un'ombra ancor più sottile che, con decrescente ostinazione, nasconde la scoperta. Davanti alle opere dell'artista pescarese si è sul ciglio; si vive l'attimo che precede l'attraversamento di una soglia. Oltre c'è l'avvio di un nuovo viaggio esperienziale (sapienziale). Lo stile della Napoleone tende a dissolvere il segno, oltrepassando i canoni dell'arte informale che mirava a cancellare definitivamente la brutta copia della parola nel momento in cui il mondo stava zitto. Tale corrente artistica nacque infatti dalla negazione-opposizione critica nei confronti della crisi morale e ideologica seguita ai rimbombanti orrori della Seconda guerra mondiale. È un ambito artistico non coeso, dinamicissimo, sul quale c'è ancora molto da studiare e poi da specificare. Jackson Pollok, Alberto Burri, Lucio Fontana, Emilio Vedova, in vario modo, hanno lasciato segni, chiari al punto di essere distintivi e identificativi del loro stile. Si tratta di cifre (cifrature) che ambiscono al caso, all'anonimato linguistico e fonetico, ma l'esito è spesso tutt'altro. La grandezza di questa forma espressiva sta nel suo fallimento. Di fronte a un taglio di Fontana si può urlare; davanti alle contorsioni segniche di Pollok si può essere incuriositi al punto di avventurarsi in improbabili traduzioni di quanto scritto in altra lingua (forse radicalmente egocentrica, forse afona). In entrambi i casi la parola rincorre immediatamente l'opera d'arte. Ed essa la attira a sé con i suoi graffi (si pensi a Pollok, Motherwell, Dubuffet) che si infilano nella mente di chi guarda senza trovare modelli che corrispondano a ciò che questi vede. Si alimenta così un andirivieni di emozioni che genera un gioco di rimandi, e questo permette l'attesa. Nell'attimo di sospensione i segni-colori rimbalzano dal dipinto allo specchio della mente e da questi tornano: nel mentre possono manifestarsi e alternarsi sbigottimento o stimolazione, mutismo oppure dialogo, atonia o dinamismo.

Mirò, dunque, precursore dell'Informale e della pittura segnica? Egli era a Parigi durante la guerra civile spagnola, altro orrore del Novecento; ritornò in patria al momento dell'invasione nazista della Francia. Fu dunque emotivamente coinvolto, sebbene distante dai campi di battaglia, da una guerra terribile qualche anno prima di quella mondiale. Le sue motivazioni a un rivolgimento critico interiore dovevano essere forti quando ancora di arte informale non si poteva parlare. Il processo trasformativo che porterà alla nascita di quella corrente era dunque già avviato con un decennio di anticipo.

Il segno, nell'abbondanza e nella rarità, sta saldamente nell'arte ed evoca, più o meno sottovoce, lo sviluppo naturale della parola. La sottintende, la solletica, la traveste. Il verbo c'è, anche solo di riflesso, nei palpiti reattivi di quella mirabolante lanterna magica che è il nostro cervello.

 Joan Miró

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