Napule è
Paolo Menduni, Napoli è

Napule è

diTeresa Mariniello

Napule è mille culure

…..

Napule è na camminata

Int’e viche miezo all’ate    

 

Pino Daniele 1977

 

Napoli è mille colori, è una treccia di fili diversi che insieme formano un disegno, è come un tappeto che nel tempo si è steso vicino al mare e lungo le colline che circondano la città.

Nella camminata si può scegliere di tenere un filo, scelgo quello rosso.

Antico, pulsante, ricco di leggende e storie sussurrate, misteri mai svelati, ridondante di suoni e immagini, di odori che si mescolano come in un bazar senza esserlo.

Parto dal rosso del ventre di Napoli, da quella parte della città che si suole chiamare centro storico e che si presenta come un organismo unitario e ben definito nonostante le numerose stratificazioni avute nel tempo.

Neapolis, V secolo a. C., ha un tracciato ippodameo articolato lungo tre decumani orientati da est a ovest e numerosi cardi orientati da nord a sud. Insieme formano il tipico impianto a scacchiera delle città greco romane. Su questo si è sviluppata la città dei grandi complessi conventuali, dei palazzi nobiliari con le scale aperte napoletane, delle ricche cappelle private dei principi, degli alti obelischi in pietra ricordo delle macchine da festa barocche, delle statue venute da terre lontane, delle maioliche di memoria araba.

Parto dalla continuazione del decumano di San Biagio dei Librai con il complesso monumentale di Santa Chiara per arrivare vicino a quello dei Tribunali con l’altro complesso di San Gregorio Armeno.

Otto minuti a piedi per una distanza in metri di seicentocinquanta, con un tempo storico di oltre duemila anni.

La chiesa di Santa Chiara si presenta ancora oggi nella sua forma gotica, con il rosone traforato, con il pronao dagli archi a sesto acuto, con la facciata a larga cuspide che appare ancor più imponente perché la si guarda dal basso e da vicino nella stretta via su cui gravita. In alto, sul portale di accesso al complesso, un’unghia di piperno rende ancora più stretto il campo prospettico e sembra proteggerla dal fuori.

Il dentro è una successione di accadimenti architettonici, tra cui il chiostro maiolicato, quello delle Clarisse.

Intorno 1740 l’architetto Antonio Vaccaro lo trasforma in un giardino colorato.

Lascia inalterato l’impianto dato da due viali che dividono la zona in quattro aree, ma li sottolinea con pilastri ottogonali rivestiti da lucenti maioliche con festoni di frutta e fiori che si uniscono a quelli veri del pergolato. Sotto, sugli schienali delle sedute tra i pilastri, è raffigurata la vita quotidiana con scene legate al mondo marinaio e campestre. Nessun riferimento alla sacralità del luogo, solo una raffigurazione accenna ai giorni nel convento. Una clarissa da cibo ai gatti nel chiostro dove sono ora.

Si potrebbe sostare al sole, socchiudere gli occhi e vederlo inondato dalla luce e dal silenzio claustrale di allora, ma la via chiama e porta nella piazza successiva il cui centro è segnato da un alto obelisco.

La grande abside della Chiesa di San Domenico da sulla piazza omonima come se fosse la quinta di una scena che chiede di essere rappresentata.

Questa volta il giallo del tufo degli alti costoloni gotici, che tengono serrata la massa absidale, e gli altri corpi connessi rimandano più a un’architettura civile che religiosa.

Fa pensare a un piccolo castello che sviluppa dalla parte opposta gli ambienti che si sfrangiano poi negli orti. Era forse così nel 1300, prima che costruzioni successive occupassero le antiche insule della città, come la Cappella Sansevero del 1700. Vicinissima spazialmente eppure lontana per il filo che seguo.

Mi porta a Donatello, custodito nella piccola Chiesa di Sant’Angelo a Nilo.

Affacciata sulla piazzetta un tempo dedicata al culto pagano del grande fiume, ha all’interno il sepolcro del cardinale Rainaldo Brancaccio, commissionato da lui stesso agli artisti più rinomati del periodo, Michelozzo e Donatello. Con bottega a Pisa, vicino alla cave di Carrara, i due artisti raccordarono due epoche vicine, quella del gotico e quella del nascente stile rinascimentale.

Proseguo verso questo stile, entro nel Palazzo Carafa attraversando il portale in marmo bianco, tipico del rinascimento napoletano.

Nel cortile, una testa di cavallo finemente modellata. È la copia in terracotta di una statua di Donatello mai terminata per la morte di Alfonso D’Aragona, re di Napoli, che gliel’aveva commissionata.

Il tempo si dilata, la mente fatica a incasellare in questo rimbalzo continuo. La città sfugge. La sua identità è nella commistione degli stili, nei contrasti così simili ai suoi cieli, nei segni delle tante dominazioni da cui ha attinto per farne humus.

Allora tutto diventa normale. La testa di cavallo di Donatello e il vicino laboratorio dal nome inconsueto. Ospedale delle bambole.

Dal 1800 si restaurano qui bambole di ogni tipo e di ogni materiale, tutti i compagni d’infanzia possono essere riparati, ma anche Santi e Madonne e pastori per i presepi napoletani.

Siamo arrivati all’incrocio con una delle vie più frequentate e più caratteristiche, quella di San Gregorio Armeno, la via dei pastori. Famosa in tutto il mondo, piena di botteghe con statuine di varie grandezze sia di classici personaggi del presepe sia di personalità della politica e della cultura attuali. Ancora sacro e profano.

In fondo alla via il complesso conventuale di San Gregorio Armeno.

Chiuso su sé stesso, non dialoga con il caos della via ma racconta una leggenda.

La chiesa venne costruita sui resti di un tempio pagano dedicato a Cerere, scelto dalle monache di San Basilio per fondare il convento, fuggite ormai dall’oriente con le spoglie di San Gregorio. Cerere, terra, madre.

A destra del portone d’accesso alla chiesa c’è ancora oggi la ruota degli esposti, dove venivano abbandonati i cosiddetti figli della Madonna.

Oltre si arriva all’ampio chiostro, dalle arcate serene con logge sovrastanti, tutte dipinte di giallo su cui spicca l’arancio degli agrumi. Al centro abbaglia il bianco della monumentale fontana settecentesca con le statue di Cristo e della Samaritana.

Ancora un riferimento all’accoglienza che mi piace pensare non causale, ma in continuità storica col Genius loci di questo angolo della città.




Commenti

Lascia il tuo commento

Codice di verifica


Invia

Sostienici