Storyboard di Damiano Azzizia: lo spazio domestico, dalla parete alla pagina.
Disegno tratto da Storyboard

Storyboard di Damiano Azzizia: lo spazio domestico, dalla parete alla pagina.

diIlaria Monti

Il termine inglese Storyboard indica la rappresentazione grafica e sequenziale di una narrazione. Si tratta di una specie di sceneggiatura, una modalità di visualizzazione di una storia che viene utilizzata tanto nel cinema quanto nel fumetto, soprattutto nella fase progettuale. Il libro di Damiano Azzizia (Martina Franca, Puglia, 1993) pubblicato da Esperidi in edizione limitata nella collana “Traffici d’Artista” e curato dal critico e storico dell’arte Carmelo Cipriani, è concepito come lo storyboard di uno sguardo che attraversa e percorre le stanze, gli angoli e i dettagli di una casa. L’osservazione dello spazio domestico e degli oggetti e soggetti che lo abitano o lo disabitano, è una tema ricorrente nella produzione pittorica e grafica di Damiano Azzizia, caratterizzata dal frequente utilizzo di un supporto povero come il cartone, e da una pennellata e un disegno sottilissimo e in grado di evocare un’atmosfera metafisica e silenziosa degli ambienti rappresentati.  

 Landscape, 2020. Acrilico su carta

Le venticinque tavole raccolte in questo suo primo libro d’artista sono la de-costruzione di uno scenario domestico in cui le dimensioni spaziale e temporale immobili e sospese entrano in contrasto con uno sguardo vertiginoso e rapido: l’artista si avvicina ora ai dettagli – schienali di sedie, interruttori, attaccapanni – ora si estende alle pareti, al pavimento e agli stipiti di porte aperte e socchiuse, che sembrano celare alla vista altre stanze oltre la soglia. Sfogliare le pagine del libro, attraversarne i disegni, significa ripercorrere il giro di sguardo di Azzizia, come se noi lettori/osservatori fossimo degli intrusi nell’intimità di una casa che non ci appartiene ancora, ma che possiamo fare nostra. È ciò di cui scriveva anche Gaston Bachelard nel noto saggio Poetica dello Spazio (1 ed. originale 1957), dove il filosofo francese indaga la relazione tra lo spazio e l’immaginazione poetica, da un punto di vista metafisico e fenomenologico. Alla casa Bachelard dedica pagine interessanti, soffermandosi in particolare sul suo potere evocativo, sulla capacità dello spazio di contenere e sospendere il tempo, e su come tutte le case che abbiamo vissuto o abbandonato siano in grado di generare sogni, visioni, e un’affezione “primitiva” in quanto luogo dei ricordi protetti, primo guscio. Per queste caratteristiche anche oniriche e per il potenziale narrativo di questi spazi, Bachelard afferma che si può leggere una casa, e la si può scrivere.  Similmente, attraverso la matita, Azzizia legge e riscrive lo spazio, formulando una personale poetica della casa che sembra fondata soprattutto sui margini e sulle mancanze, sulle visioni incomplete: ogni tavola è affiancata da una pagina bianca che funziona come spazio vuoto, un invito a completare l’immagine immaginando altre pareti, altri spazi, altre forme per gli oggetti. Azzizia fa così riferimento alla legge della continuità della forma, e più in generale ai principi della configurazione con cui la Gestalt ha teorizzato le modalità della percezione visiva, e dunque il modo in cui la mente organizza, semplifica, contestualizza, destruttura e ricompone le immagini.  Ogni dettaglio e forma non conclusa allora, non è soltanto il surrogato di un’umanità assente, quanto piuttosto un dispositivo relazionale fondato sulla nostra familiarità con i segni e le cose che formano il paesaggio domestico. Un paesaggio che i mesi del lookdown hanno reso sconfinato, a tratti ingombrante, e che tuttavia ha generato un ripensamento dei nostri rapporti spaziali – con la città, con il verde, con i confini e le distanze imposte nel rapporto con l’altro. È di recentissima uscita l’ultimo libro di Emanuele Coccia, Filosofia della Casa. Lo spazio domestico e la felicità (Einaudi, 2021), dove il micromondo domestico è descritto ora come luogo di mediazione e cellula minima dell’abitare lo spazio urbano, ora come «tecnica materiale e psichica che usiamo per intrecciare la nostra vita e il nostro destino con quelli altrui»1 e ancora come forma-casa di fatto inabitabile, risolta a pura astrazione geometrica in assenza degli oggetti che la occupano – letti, piatti, tavoli, sedie, armadi – e che rendono la casa uno spazio idoneo all’esistenza. Ancora, scrive Coccia: «Una casa non è solo lo spazio in cui le cose diventano soggetti. È anche il luogo in cui tutte le cose diventano protesi della nostra soggettività». Coccia e Azzizia, allora, potrebbero essere simili nello sguardo, nella scelta di raccontare uno spazio abitato e vissuto in prima persona attraverso gli oggetti, gli stati emozionali e le caratteristiche architettoniche, dando così possibilità alla forma-casa di manifestarsi e manifestare. Si apre un orizzonte poetico minimo eppure in continua espansione che, tra immagini e visioni, camere, corridoi e superfici polverose, restituisce la complessità dell’abitare.

 Disegno tratto da "Storyboard"



1 E. Coccia, Filosofia della Casa. Lo spazio domestico e la felicità, Einaudi, Torino, 2021, p. 23



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