BEAUTY HUNTERS  -  CACCIATORI DI BELLEZZA
Elio Scarciglia, particolari, Villa di Chiavenna

BEAUTY HUNTERS - CACCIATORI DI BELLEZZA

diMonica Silvestrini

Qui, sotto questo titolo, che ci ripara come pensilina dall’accecante luce artificiale, precisiamo che l’uso dell’inglese precedente quello della lingua italiana nulla ha a che vedere con una superiorità della prima sulla seconda. Ѐ solo un atto di unione tra lingue e culture, un patto universale, una forma di intesa nei secoli, suggellata dalla più piccola e remota forma di Vita. 

Siamo allora qui per immaginare, e con la nostra immaginazione diamo vita a una nuova creatura, un nuovo Spiritus Mundi, che esorta i suoi sudditi a cercare Bellezza e a mostrargliela, integra, così da poterla ammirare, adorare, come una divinità greca.

Lo Spiritus Mundi, Idea generatrice, libera i suoi Beauty Hunters, che nudi come appena generati, invadono questa terra cercando Bellezza.

I cacciatori si dirigono verso luoghi già visitati, invasi da cose e uomini, poi volgono il loro sguardo lontano come per scorgere un segno, la via sarà lunga e forse sarà tutto invano.

Sarà forse invano andare altrove, con i cacciatori d’oriente, che sognano di trovare la Bellezza sorgente dove nessuno è mai giunto, dove ancora puri i suoi figli giocano, e crescendo, parlano d’amore.

Oriente, occidente, e il Nord estremo, terre di ghiacci che trattengono il verde del mare e dell’aurora, il sud estremo, il Fuoco e la sua terra. Ovunque potranno andare, ma nulla porteranno al loro sovrano, se il seme della Bellezza non germoglierà nel loro lembo di terra interiore.

Di questo, tra le altre cose, scriveva I. Kant nella Critica del Giudizio. Bello, l’oggetto, cattura lo sguardo e i sensi dell’osservatore, che lo vedrà bello solo se in sé quel processo conoscitivo gli consentirà di sentirsi, di riconoscersi in quel processo vitale, in quella danza della vita che è solo dell’uomo, dove immaginazione e intelletto trovano una propria armonia. 

Alla Tate Britain, uno dei dipinti in display di J. M. W. Turner, the Shipwreck, non si può dire oggettivamente bello. Perché il bello non ha legami immediati con il Sublime. Ci sono vicoli di bellezza che si intersecano nel buio, che al sublime giungono, ma di fronte a quel dipinto, i cacciatori di Bellezza sono confusi, non sanno dirsi se quello che vedono potrà soddisfare lo Spiritus Mundi.  

Allora si consultano e osservano l’opera. Non è cosa bella, perché parla di tragedia e di morte. Sempre restando con Kant, formulano il proprio giudizio conoscitivo. Dovranno proseguire e cercare altrove, o forse ancora, in quello stesso luogo.

Uno dei cacciatori, tuttavia, decide di fermarsi. Il suo essere si unisce con la scena in mare aperto e quel sentire, quel suo rinnovarsi attraverso ciò che vede e sente, non può che essere Bellezza.

Decide allora di trattenere quell’immagine, mentre seguita a cercare per poter onorare il suo re, Spiritus Mundi.

In una realtà dove si cerca di persuadere esseri umani che AI può essere accolta come special guest nei loro umani incontri quotidiani, che può aiutare il Caso a sapere sempre dove si trova e può sgombrare ogni mente, lasciandola in attesa, non in senso leopardiano, ma in attesa che altri facciano per lei, sembra paradossale poter trattare di Bellezza.

La Bellezza è come i fiori più rari. Necessita di terreno fertile, ma anche di cure, di amore.

E il fiore più raro può essere anche il tarassaco o un suo soffione nel moment of being di un brav’uomo che fa ritorno dai campi.

Eppure oggi, tutto si dice, tranne che di guardarsi dentro. Forse perché già si teme di non scorgere ciò che c’era in potenza che in atto stenta a divenire. 

Così quei giovani, che inconsciamente attendono di essere lodati per ciò che sono, che sanno fare, vengono maldestramente guidati da adulti inconsapevoli illuminati dalla falsa energia della luce artificiale a delegare ad una macchina le proprie capacità. Ci sono adulti che affermano di aiutare i propri giovanissimi figli a svolgere i compiti scolastici supportati da AI, qualcuno decide persino di comunicarlo al mondo attraverso i media. Ma quanto male fanno ai bambini, ai giovani queste abitudini? I compiti, che non necessariamente devono essere perfetti, aggiungo, potranno essere rivisti successivamente in un contesto di insegnamento-apprendimento. La giustificazione è sempre la stessa e probabilmente viene da una fonte astuta: siamo noi che immettiamo gli ingredienti. Certo, ma è la macchina che fa ( non riesco a scrivere crea). Così, quel creare, l’unica parola che nasce prima dell’uomo e quella stessa meraviglia che pervade tutti i sensi di fronte alla Bellezza, perde ogni lettera, si decompone, in filamenti che fluttuano invisibili in un universo morente 

( riguardo alle lettere in caduta mi sono lasciata ispirare dagli Scarti alfabetici di Gera – Gasparini). 

E’ il tarlo dello stare all’avanguardia, dimentichi della vera avant-gard artistica, i cui fondamenti furono nella creatività più ardita, nell’erigere lo spirito d’innovazione. Il tarlo invece dovrebbe essere la cura per il Pensiero, costretto ormai nel proprio flusso naturale in specchi stagnanti, interrotto e sopraffatto da comportamenti transumani. “Tutto ciò che è umano è umano perché opera del pensiero”, echeggia l’immensa filosofia hegeliana e ancora da Hegel: “Der Mensch ist diese Nacht, dies leere Nichts, das alles in ihrer Einfachheit enthält”. L’uomo è visto come la notte, un vuoto nulla, che contiene tutto nella sua semplicità.

Io trovo quest’ultimo enunciato meraviglioso.

 Ѐ necessario che ciascun giovane di oggi  sia consapevole del proprio unico essere, che proprio perchè unico e umano viene prima di qualsiasi artificio materiale. Ѐ necessario che si riconosca, sin dalla giovane età la propria impossibilità ad arrivare a tutto, a non pretendere che tutto accada ora, che ogni domanda debba fornire una pronta risposta, proprio come farebbe un fornitore di merce al domicilio del richiedente. Quelle Muse che s’inquietarono per molto meno di ciò che oggi accade,  nell’atelier di G. de Chirico, potrebbero posare ora di fronte ad un Castello Estense prodotto da una stampante in 3D. 

Le parole comodo, veloce, comfort zone, girano con senso di onnipotenza, come palline che colpiscono i baluardi dell’attesa e li fanno cadere. Ciò che fa riflettere è comunque il presunto vantaggio, che dovrebbe essere una quantità di tempo in più, guadagnato nello stare comodi sul divano, nel non lasciare le proprie case, nel comunicare sempre meno, nel non fare più le cose dell’uomo.

Sembra però che questo tempo risparmiato nel non giungere, non incontrare personalmente, non esserci, e per restare in tema, non dare la caccia alla Bellezza, s’accumuli attimo dopo attimo, come nel cestino di un device elettronico. Sembra che il beneficio che si può trarre da ciò che oggi si definisce perdere tempo, sia totalmente incompreso.

C’è la necessità che il Caso torni a noi, che dovremmo chiedere perdono per averlo esiliato. Perchè nulla di casuale può accadere se noi stabiliamo tutto a priori, senza lasciare qualcosa al nulla.

Uomo, uomo prima di tutto.  L’antropocentrismo, dal greco άνθρωπος, uomo, essere umano e κέντρον, centro, che mette l’uomo e il suo essere al centro dell’universo, sappiamo essere vivo nel mondo ellenico, quando  filosofi greci, da Socrate ai sofisti, Platone e Aristotele, pur considerando le divergenze e le personali visioni, celebravano l’uomo e ne esaltavano l’attività intellettuale, l’etica, il ruolo primario nella comprensione della realtà. Socrate in particolare si riferiva al dialogo interpersonale, alla conoscenza del sé, come approccio alla vita, al fine di perseguire virtù e felicità.

Nel corso dei secoli, poi, dalla visione teocentrica del medioevo a quella del Rinascimento, dove l’uomo, visto nella sua interezza, è colui che aspira alla conoscenza, curioso e attivo nel raggiungimento del sapere, nell’interesse per l’arte e nell’impegno nella vita politica, l’essere è sempre pervaso da un’aura di spiritualità. Per poi giungere all’esaltazione della ragione, quindi ai grandi ideali romantici, alla Seele e alla Sehensucht, fino all’uomo moderno, alle grandi trasformazioni, le avanguardie, i nuovi stili letterari, le rivoluzioni e le rotture nel mondo dell’arte. Nulla fin qui si allontanava dall’idea di uomo, dal suo essere attraverso i secoli, dal suo apparire nuovo e abile nell’intraprendere le sue cose, pur in un incessante progredire della tecnologia. Mai prima di oggi, questa epoca che stiamo vivendo, ci si esaltò all’idea di superare l’uomo, di relegarlo ad un ruolo minore, di umiliarlo e circuirlo, tanto da fargli credere che per lui, in realtà, le possibilità si estenderanno. Illusioni che potrebbero autodistruggersi se si pensa che alcune promesse di nuove professioni potrebbe riguardare sempre lo stesso ambito, sempre quello. Come se gli uomini di domani non dovessero avere diverse aspirazioni, inclinazioni, passioni, grandi e personali passioni. Eppure le possibilità si estenderanno perché le macchine dovranno essere alimentate dall’uomo, ci dicono. Se gli individui dovranno immettere gli ingredienti, in quanti saranno a svolgere tale operazione? Rischieremo di operare in un’unica dimensione? Senza la pretesa di trattare argomenti o ambiti nei quali le nuove macchine che vogliamo essere a noi superiori, ci dicono possano aiutare ( mi riferisco alla medicina, alla salvaguardia dell’ambiente, per esempio), non possiamo accantonare quest’idea della uniformità di ruoli. Tutti guardiani qui o là delle macchine? E quell’Arte che ci rende eterni? 

Come possono i musicisti non soffrire nel cuore, sapendo che l’impegno di anni, la disciplina e la dedizione allo strumento, potranno essere sostituiti da una macchina, che fa, invece dell’uomo, e che il musicista artificiale potrà vantarsi di quella produzione, firmandola con il proprio nome? E i poeti, che come Ted Hughes scorgono la volpe nel buio della notte, che incarna l’ispirazione folle 

( scrivo folle perché immensa, senza confini) quanto soffriranno? E i relatori appassionati i cui occhi sono velati dall’umano pianto, come si sentono oggi a condividere il palcoscenico con coloro che sfoggiano parole senza creatore senza grassi e senza zucchero assemblate da AI? Perché basta una sola volta perché ce ne siano altre, e altre ancora, fino alla lenta o non così lenta distruzione della creatività umana.  

Un ostacolo per i Beauty Hunters è la dilagante abitudine degli individui di vivere su due livelli, uno reale e l’altro artificiale, un modus vivendi che mi piace chiamare layerizzazione. Nel suo vivere layerizzato Leopold Bloom, Ulysses per Joyce, contemporaneamente all’attimo reale nel quale agisce, vive quello del suo pensiero ( come tutti facciamo) ma in tal modo il pensiero mantiene la sua posizione centrale nella vita umana, è esso stesso vita. Non è così ora, quando nella layerizzazione  dei contemporanei, si accede ad  una dimensione altra, che nulla a che vedere con il pensiero dell’uomo. Ecco la situazione di oggi. Ma non finisce qui, infatti, questo nuovo layer, assume maggiore importanza della vera vita e quindi dello stesso pensiero. Così il Pensiero scorre a tratti, con fatica. E la Terra, senza flusso, si fa arida, una nuova Waste Land, il cui autore non ascolterà la voce del tuono, ma invocherà una copiosa pioggia di ricchezza.

Anche lo stesso legame della vita con la morte sta perdendo la sua spiritualità, non necessariamente in senso religioso, ma nel senso di essere parte dello stesso flusso. Perché anche la morte, come l’uomo, deve essere superata, sconfitta, depauperata del suo essere Morte. Là dove solo il corpo e i beni materiali contano, la Morte non viene intesa per quello che è, invece è di quella Magia, che tanto attraeva Yeats, ciò di cui abbiamo bisogno, quella magia che rende attoniti, senza fornire spiegazioni, che ci lascia sospesi e liberi, come bambini,come Beauty hunters, nel Sogno.

Commenti

Lascia il tuo commento

Codice di verifica


Invia

Sostienici