Catabasi, IV
Alessandra Gasparini, On Lutte

Catabasi, IV

diDiego Riccobene

Ansohauen und ahnden

Contemplare e anelare

Novalis


Ogni tentativo potrebbe essere vano, lo sappiamo. E pure, perché non azzardarlo, perché fingere che non sia mai stato il momento?

Mi chiedo come poterci dire se non artefici che si crogiolano – sottile ma vergato confine – tra il fuori e il dentro della mimesi[1], dell’inganno più ulteriore che mai sia stato dato. L’arte è vita? Ci si deve riflettere, deve compromettersi fino a questo punto? È possibile – domando a me stesso, non a voi – che sia poetico fine (intendo qui fine non come obiettivo, bensì come proda finale cui anelare, costeggio prima del vespro, preghiera dell’ora nona) quello che non esce dal rancio della propria Einbildungskraft, artando la suddetta quasi a farne potere spirituale?

Amo Novalis, ma sorrido della sua ingenuità. Senza di lui non esiterebbe la poesia che si pretende di catalogare come “moderna”, eppure non ha voluto denaturare la contraddizione che si capillarizza nel porre come assoluto genio creatore qualcosa che sia generato dentro di sé. In quanto Io e negazione dello stesso possano coesistere, e annullando il principio di non-contraddizione, tutto può essere creato[2].

Niente può essere creato, viceversa; o meglio, ci si pone a confronto con la quaestio magica.

Qui nondimeno Novalis credeva, era uomo di fede. Non punto cristianamente, ma anche come persecutore di forze a guisa di flussi scaturiti da un ente verso un altro. Soggiogamento, pertanto. La parola è nostro incubo, e può partorire; ma allora, se questo accade e nella misura in cui accade, quale può essere il senso di essere autobiografici nel proprio dettato? 

Pensare che l’Io scaturisca esplicitamente la sua ontologia formale dall’esperienza di ciò che esso è dentro-di-sé pare una cogente limitazione delle possibilità che l’arte conferisce non come atto dato, ma come téchne acquisita tramite la condizione di alterità che gli antichi attribuiscono allo status creativo [3].

Si tratta di capire quanto di esoterico esista nella parola e come la stessa nutra l’intento di fidelizzarsi a tale intendimento, e altresì di scendere a patti con pratiche di antitesi e sintesi, domandandosi ancora se e in quali termini esista una sintesi assoluta. Se la risposta fosse affermativa, solo la poesia sarebbe in grado di coglierne i segni e ri-mediarli. Non esiste ordinamento più compiuto del segno che, fattosi simbolo e pneuma (in quanto respiro pronunciato), può incidere e insufflare sul fuoco, alimentare e spegnere. Ma poi rimane da compiere la rimozione della sporcizia, togliere ciò che permane di superfluo, accovacciarsi con dignitosa proiezione alla propria opera e livellare le superfici. 

Da qui la consapevolezza che il segno sintetico non può che nasce dalla rottura antitetica del concetto, in primis, e perciò anche della materia, l’oggetto che si plasma in fieri. Non è forse la scienza occulta a dirci che lo stato fisico è il più antico, dunque quello che massima perfezione ha raggiunto e che può esserne maggiormente alterato?[4]

Si sradica l’Io stesso, la propria volontà di porsi, ne si svuota il cinerario nella crepa ossimorica che ci è rimasta in dote da questi ultimi due scabrosi secoli. Dimodoché si potrà comprendere cosa dire e come dirlo. Solo dopo aver concepito la forma dallo scolo e pulitone i rimasugli fosforici dal tracciato, dal cuoio, si perviene a una sintesi: vige l’intervallum tra epoca dell’oro e del decadimento, e si ha da cavalcare a piene forze questo iato, adesso. 

Pertanto: non dirò Io, giacché la consolazione metafisica è una trappola per ratti; non ho interesse a narrare, non scopertamente. L’intervallum sopradetto non lo consumerò nell’attesa che si sublimi un qualche struggimento interiore, ma attuando la manipolazione del materico cui sono sottoposto, modellando il golem col pathos necessario dell’accettazione di una forma e con la volontà di bagnarsene le mani. 

Calcando lo sporco e la sugna possiamo giungere al più alto dei compimenti; avallando la forma possiamo inverare la predizione. O forse dimentichiamo che chi cerca la poesia cerca la parola dell’assoluto? Ignoriamo stoltamente la lezione di Novalis? Cerca, contempla, anela. 

Non v’è dio, non v’è soggetto che possa porsi come tale, se non quello che trascende e discende, in profondità.


____________________

 1. Aristotele, Poetica. Traduzione di rif. Di Domenico Pesce per Bompiani, Milano, 2000.

 2. Si rimanda al commento assai profuso di Susanna Mati in sede di introduzione a Novalis, Inni alla notte – Canti spirituali, Feltrinelli, Milano, 2018.  

 3. Aristotele, Poetica, op. cit.  

 4. Rudolf Steiner, La scienza occulta nelle sue linee generali, Editrice Antroposofica, Milano, 2015.

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