Danzare sull'abisso
Foto di Elio Scarciglia - Venezia, Carnevale 2018

Danzare sull'abisso

diDiego Riccobene

Edipo, risolto l’enigma, afferma: “io, che nulla sapevo, appena giunto ammutolii la Sfinge, senza nulla avere appreso dal volo degli uccelli”[1]. Sta disconoscendo il sapere profetico, la manteîa, e Tiresia lo ammonisce aspramente: “non sono schiavo tuo, ma del Lossia”[2]. Loxía, il doppio, l’ambiguo.

La ricerca dell’Altro è sempre divenire nella consapevole presenza dell’ambiguo, che è la nostra natura immanente, peregrinare continuo di ombreggiature sfatte, come insegna Hoffmann declinando la sua intera opera (si consideri, a titolo rappresentativo, quel breviario di ossessioni proto-surrealiste che è la novella Der Sandmann): ognuno è anche il proprio doppio, testimone dell’espropriazione di un Altro che ne esonda e si fa ente non più controllato, natura separata e contradittoria, che sia perturbante, oggetto di canto o entrambi al medesimo tempo.

La poiesi può così corrispondere a un dettato sorgivo che si muova da sé e raggiunga l’Altro-da-sé, nell’infingimento e nello smottamento di agnizioni non adempiute, per approdare a un linguaggio atto a scandire il passaggio sul finissimo ponte di spada. Nel momento in cui la parola tenta questo estremo compimento, approda quindi alla contezza dell’Io onde si promana come distinzione e pure travagliosa vicenda nell’in-distinto. Afflato o volontà di piegarsi alla materica sostanza: il primo non prescinde dalla seconda, ed è quella crepa, quella displasia tra mistica e vizio – tra bíos e zoé – a muovere ricerca di una voce che possa dirsi compiuta.

La domanda sarà allora: ogni facere è sacrum facere? Se lo si affermasse, che la rivelazione della parola intoni un’alterità apparentemente cifrata, il vivente tentativo di comprensione e riproduzione del sapere divino; pretesa probabilmente infruttuosa, destinata a decadere con la nostra stessa sostanza, Morte – per nominarla come si deve – “moriamo nella misura in cui non distinguiamo”[3].

Ed è, nondimeno, tentativo che debba essere fatto, dacché solo ammettendo ciò che non si è ci si distingue dall’indistinto, solo riconoscendolo e assolvendolo (laddove, lo ribadisce Agamben, assoluto dal verbo solvo e quindi da ab-solvo, un processo di uscita da sé che implica separazione)[4] è dato ritualizzarlo, allungare la mano verso lo specchio rifrangente il doppelgänger e toccarlo, stabilirvi un canale di comunicazione emettendo un suono che ci è proprio (eppure non lo è); o infine ucciderlo: come meglio si creda. 

La Bildung di un Io cosiddetto “armonico”, che pare necessaria a giustificare il sapere circostanziato empiricamente, non ha sbocco, anzi finisce per concretarsi in scissione e vocìo, vertigine che indurrebbe opera di sfoltimento, sempre in ragione di quel fatto, umano e razionale; tuttavia, afferma Claudio Magris introducendo proprio Hoffmann, “se la vita è questa danza sull’abisso, l’arte è la più pura conoscenza di tale danza”, e la forma del linguaggio è medesima sostanza di ciò che il linguaggio stesso vuole significare –  ancora Magris cita le parole di un allievo di Schelling: “il mio spirito non ha acquistato ancora tanta elevatezza ed ampiezza da cogliere interamente la mia vita. Troppo spesso la materia che è in me ha spezzato la forma che volevo darle”[5]. 

Il contatto con il numinoso – in quanto contrapposizione a ciò che possa essere oggetto di pensiero concreto, mirum, “totalmente-altro” come intuisce Rudolf Otto[6], analogia a un certa definizione di sublime traverso cui la lirica moderna passa, inevitabilmente – è il fine di un canto che usa a ragion veduta formule scandite non (solo?) per ossequiare una traditio, ma per ricostruire il passaggio e attraversarlo con la compostezza che esso richiede. 

Pertanto, l’esigenza di forme preordinate, che siano attinenti a un concetto di eleganza a stregua di formulario (ovvero, di postura), si dà conseguentemente all’atto di volontà che lede l’ontologia del proprio individuo confessandone il doppio, l’esse come lotta e rovesciamento, il dire come manteîa.

Ecco porsi lo iato, tornando ai fatti di Edipo: il figlio di Laio scopre di essere altro da quel che è stato (ed è divenuto) e la rovinosa sua contaminazione ne sancisce il passaggio nel labirinto, la medesima che è incapace di scernere. “Sì, tu hai gli occhi, ma non riesci a vedere”. Ha ritenuto il profeta non degno di essere udito, anteponendo la phroneîn all’ambiguo, non ha danzato sulle rive abissali, non ha guardato il fondo. “Ahimè! Com’è terribile il sapere, quando il sapere non giova a chi sa!”[8] lo schernisce Tiresia.

Dunque: dove il punto esatto, incavato tra phroneîn e oracolo? Tra sapere dato, terreno, e sapere Altro? In prossimità di quella crepa è la risorgiva del canto, la danza scandita lungo lo smisurato.


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[1] Traduzione di F. Ferrari da Sofocle, Edipo Re, Rizzoli, Milano, 1987, vv. 396-398.

[2]  Ibid., v. 410.

[3] C. G. Jung, Septem sermones ad mortuos, Oggero Editore, Carmagnola, 1989.

[4] G. Agamben, Il linguaggio e la morteun seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino, 1982.

[5] Dal saggio Parigi 1931: non leggete Hofmann di C. Magris in apertura di E. T. A. Hoffmann, Gli elisir del diavolo, Einaudi, Torino, 1979. 

[6] R. Otto, Il sacro, SE, Milano, 2009.

[7] Sofocle, Edipo Re, op. cit., 

[8] Ibid., vv. 316-317



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