
Filosofia politica del Pardesh, come pensare un altro mondo
Riflettevo in questi giorni come il pensiero contemporaneo, ma in genere il pensiero dei ‘maitres a penser’ da Cartesio in poi, abbia una sua propria evoluzione che da una considerazione sul male di vivere poi si autogeneri come dalle ceneri non della Fenice ma di una angoscia profonda, ‘come se avessi una ferita nel fianco’ recita Paolo di Tarso. Tipico il pensiero dell’esistenzialismo e di J. Paul Sartre in particolare ma non solo, e ce ne sarebbero ben pochi quelli che si sottraggono al fascino del male. Da Pascal in poi il pensiero francese è affetto da questo disturbo dell’ego che ‘cogita’, come se fosse prodotto da cattiva digestione per dirla con gli psicoterapeuti cognitivi. Sarebbe altrettanto sciocco eludere la domanda ‘e allora che fare’?
Essendo sostanzialmente per competenza mia un esegeta dei testi sacri tra Occidente e Oriente attribuisco molta importanza all’indagine gnoseologica del testi sacri, in particolare biblici (antico testamentari e nuovo testamentari con excursus piacevoli sui Vangeli gnostici che son pieni di stravaganti sorprese) indo vedici e buddhici, nonché con estrema ultima sorpresa la tradizione musulmana di Al Gazali, Avicenna ed Averroè il cui arabismo cosmopolita, aristotelico in particolare, rivela questa indagine assolutamente nuova nell’interpretazione dei testi della filosofia classica. Se ripenso poi alla sua forma particolare, anche morfologicamente linguistica, strutturale, credo che non sia assolutamente bislacco pensarla come una Filosofia del Pardeiza, del paradiso, del Pardesh che in Dante ed altri in particolare della scuola cabalistica iberica e provenzale, diventa una Filosofia politica del Pardesh, del Paradisiaco, del Nirvana secondo la tradizione buddhica. Lo stesso Dante sollecitato da Cangrande della Scala così lo esplica, come una filosofia politica di uno stadio evolutivo della storia umana. Una storia evolutiva,- lo statuto del paradisiaco-, che prende una forma geometrica di una spirale logaritmica dal basso verso l’alto, dall’Inferno al Paradiso. Un po’ come nell’Angelus novus di Klee che deve prendere dalle rovine le pietre e portarle verso il paradiso ma una tempesta ne sposta le ali e ne impedisce il volo.
Dunque la domanda che mi ponevo e pongo all’ordine del giorno del pensiero teandrico, antropologico e filosofico, ripercorrendo indietro nel tempo la domanda cui fino ad adesso ha avuto poca riflessione se non in pochi, come mai nel racconto del Genesi la parabola del giardino dell’Eden ha avuto poca attenzione se non per maliziose quando fuorvianti deduzioni? La Parabola del Giardino a mio parere deve essere intesa come sintesi di:
a) la ricostruzione sintetica dell’opera divina, della mente natura nella creazione, dunque la prima esperienza del riposo divino (lo shabat del settimo giorno);
b) l’antropogenesi dell’umano nel contesto della biodiversità;
c) la biforcazione in umano maschile e umano femminile;
d) la finitudine e la proiezione di una pena come resurrezione in altro Pardesh, non più storico umano ma storico trascendente.
Dunque il limite (hortus conclusus) e l’illimite (l’infinito paradisiaco delle meraviglie) alludono entrambi ad una idea, come sosteneva Alfred North Whitehead, di natura provvidente e provvidenziale. Ma in che senso? Alla luce della catastrofe storica e della catastrofe storica dell’umano nel presente, è evidente che la perdita di quel paradigma, la Filosofia politica del Pardesh come la definisco, non è l’origine di una antropogenesi, ma all’inverso l’indicazione primaria dove la mente natura riversa il suo progetto, lo aggetta. L’equilibrio fisico, cosmico e animale della Forma antropogenetica, come suggerisce più volte G.B.Vico, Karl Marx, Konrad Lorenz, W. Benjamin e Simon Weil e prima ancora Aristotele, Averroè e la scuola Chassidica e della mistica ebraica (ebraico-ispanica cristiana e araba) è qualcosa che riguarda lo statuto d’eccezione di una faticosa elaborazione della Mente natura stessa, e cioè la germinazione della esperienza del per sempre rinascente, l’eterno ritorno, il ciclo naturale dell’universo cosmo-teandrico. Di attinenza antropologica religiosa, ma che diventa nello spazio dell’assurdo macchinico, dell’inconscio macchinico e nella costruzione del cyberspazio virtuale, uno straordinario paradigma di ricollocazione nello spazio della semantica, del semasoma, il luogo della collocazione dell’esperienza dell’umano nella storia evenemenziale del mondo stesso. Il richiamo che spesso ne fa la logica indovedica e della riforma di essa nell’insegnamento del Buddha, riesce oggi allora più chiaro: non ci può essere esperienza umana se non nello spazio ben recintato (il boundary language, il linguaggio che definisce i luoghi e gli incroci delle parlate linguistiche) di un possibile, rinnovato statuto dell’alleanza come ci suggerisce Ilya Prigogine(Benkirane Réda, La teoria della complessità), tra pensiero filosofico, umanistico e scientifico ma in una direzione quasi unilaterale dello spazio tempo, la filosofia politica dell’andare insieme, del coire delle biostrutture cognitive e non oltre (non oltre la ridefinizione di un sistema analitico) nella conoscenza della mente natura, ciò che una volta si definiva filosofia della natura. Ciò che un tempo si definiva filosofia della natura non è più sufficiente perché, pur nella validità di fondo, bisogna ricollocarla e ridefinirla con altre categorie semantiche, come ben precisò Hans Jonas in Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica.
E cioè:a) l’equilibrio termodinamico dei soggetti di una comunità nei suoi rapporti con la natura; b) la ridefinizione dei suoi fini di kantiana memoria; c) la rielaborazione giuridica della convivenza umana e la sua forma politica che non può più essere coniugata nelle tre forme ereditate dalla esperienza giuridica greca e romana: la monarchia, l’oligarchia e la democrazia, ma nella pluralità delle esperienze, lo Stato della comunicazione globale, la Federazione delle comunità ecofilosofiche. La forma dello Stato che ha come sua Costituzione la Filosofia politica del Pardesh, che,se si vuole, è sinteticamente riassunta nella esperienza del Giardino zen come filosofia della mente natura e nei recinti sacri dei temenos filosofici greci, arabi e rinascimentali.
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