I veda: il mantra, la sapienza e lo sciamano
Ivor Prickett, Le nocciole sono conservate sotto il letto di un piccolo capanno, 2010, Pirveli Galli, Abkhazia

I veda: il mantra, la sapienza e lo sciamano

diVincenzo Crosio

Veda, da un antico indoiranico vaeda, sanscrito veda nel senso di conosco; il latino video, sottolinea una qualità del conoscere per avere visto e del resto il greco (v)eidos (είδοσ), figura, forma visibile, presuppone una conoscenza visibile, vista in qualche modo. Non è secondaria questa opzione, perché, conosco, gnosco, attiene ad altra riconoscibilità dell’esperienza, mentre Veda/Video, (v) είδω (v)είδöμάί e più chiaramente in (v)ίδεa), il conoscere, allude ad una apparenza, ad una interrelazione soggettiva/oggettiva del vedere qualcosa. Nel Sutra del Cuore, il sutra della Perfetta sapienza, in cinese e in giapponese questa particolarità viene conservata: Kan ji zai bo satsu gyo, il Kan, significa vedere:Tutto ciò che vedi è vuoto. L’ideogramma kan,viene scritto con una siepe dietro cui viene guardato un uccello, e vale vedere, riconoscere. Dunque la riconoscibilità di una esperienza equivale a conoscere, al farsi un’idea di un qualcosa. I Veda sono dunque l‘esperienza di una Idea, di una Visione, riconoscibile e trasmissibile oralmente. Manas e vak, mente e voce, divinità associate del pantheon vedico, sono le facoltà divine che intervengono nella rivelazione(sruti) nella Scienza del sacro: I Veda sono dunque la Sapienza delle cose sacre. La Scienza che stabilisce le regole del sacrificio e le credenze religiose, le cerimonie, gli atti, i gesti, che con-sacrano la vita della comunità tribale, la  consacra, la rende visibilmente sacra agli occhi della comunità attraverso cerimonie rituali. Il Rito, nelle civiltà arcaiche, è uno strumento essenziale di comunicazione pubblica di una scena sacra. La skenè, la messa in scena del sacro, è il Sacrificio pubblico, cui partecipano la comunità riunita e gli officianti, come atto di devozione alle divinità, alla divinità. E’ il gesto , i gesti, visibilmente riconoscibili di una ritualità comune, comprensibile in quanto segni del sacro, grammatica e sintassi del rituale sacro attraverso un atto sacrificale. Una ritualità scenica che il De Brosses ritrovava intatta nella scena del Teatro scenico del Carnevale napoletano e nella sua commedia dell’arte, alle cui origini a quanto pare viene fatto risalire anche da R. Calasso nel suo interessantissimo libro L’Ardore. Lasceremo forse il lascito della sapienza antica al teatro, pur nobile, della commedia dell’arte napoletana? A Pulcinella, il tricster, il Vrskapi, uomo e scimmia, protagonista di una vagliassata, una sceneggiata degna di Scarpetta ed Eduardo, tra sberleffi e oscenità varie, a Pulcinella lasceremo la teatralità della corte di Indra, nel decimo ciclo del Rgveda? Da napoletano ne sarei fiero, ma lasceremo ai comici l’arduo compito di interrogare l’antico?Può darsi al fine che i fescennini e il ludibrio carnascialesco siano lo spirito dissacratorio del dionisismo cui Nietzsche – lo spirito del sud come amava chiamarlo- fece ampiamente ricorso per schernire l’ignoranza del pensiero logico della tradizione scolastica. Per gli Arii non è solo questione di ritualità, o meglio nella ritualità del sacrificio vedico, c’è anche una volontà di essere in qualche modo la divinità, legare la divinità (yugo) a sé, permanente-mente, con un legame duraturo che in qualche modo associ l’uomo agli esseri immortali. Il sacrificio dunque tende a simulare in un atto di legame, la volontà di somigliare la divinità, in un gioco di reciproco scambio. Lo scambio simbolico, rituale, sottende in effetti che la divinità, in cambio di una offerta, controdoni, ceda in un legamento sciamanico, sacerdotale, in una interconnessione uomo/dio, qualcosa della sua essenza divina, il suo succo. Il termine esatto è, per questa attività sacra così descritta, spentha,(greco spondè, italiano> spendere, spandere) versamento, spesa, libagione, ma anche contratto, patto. Nel sacrificio del Soma, della pianta che da l’immortalità propria degli dei,(amrita), pianta ritenuta essa stessa Dio- (di volta in volta, con immaginazione creativa immensa in una serie di trasformazioni di pensiero, Dio creatore [Prajapati] e Dio distruttivo della Morte[Murty])-, inebriante e allucinogena, il sacrificio è detto Somaspentha, Spargimento ,Versamento del Succo dell’Immortalità. Libagione sacra dunque. E la libatio, da sola o associata alla con-sumatio, al cenacolo, è un’istituzione sacra per tutti gli Indoeuropei: latini, Germani,Celti, Greci, Slavi, Indoarii appunto. Legata a rituali religiosi, spesso divinatori che si accompagnavano a canti (samana) e danze rituali,  formule sacre (brahmana) scandite secondo dei metri (viraj) e delle ricorsività di versi magici (mantra).”Nella tradizione  dell’Upanishad <Brahman> si manifesta dapprima come nome sacro, questo eterno nome sarebbe sphota.. Sphota dunque sarebbe il Brahman in persona sotto forma del Nada-Brahman, del Brahman-parola. E secondo M.Choisy il Logos indiano può ridursi al suono  primordiale Çabda che è Brahman stesso...Donde la tecnica così importante della recitazione dei mantra, vocaboli dinamici, formule magiche che attraverso il controllo del fiato e del verbo domano l’universo. Questa recitazione sbocca in fenomeni di veggenza, e l’immaginazione ritrova così l’isomorfismo aria-parole-immagine. Eliade paragona d’altronde questo doppio senso al linguaggio ’segreto’ degli sciamani, ed anche al processo metafisico di ogni poesia, dalla parabola evangelica come dell’ equivoco semantico caro a Verlaine.Ogni divinità possiede una biga-mantra, un supporto verbale che è il suo essere stesso e di cui ci si può appropriare recitando il mantra. Si può partire dal supporto iconografico, dalla visione, sia dal ‘veicolo’ audio fonico che costituisce il mantra per assimilarsi il succo  ontologico contenuto nella semasiologia”(G.Durand, op.cit.)Il sacrificio dunque nella sua formulazione sacerdotale vedica,(brahman), è una scenografia mitopoietica, capace di ricreare nella comunità il nesso, il legame originario col divino, col sacro. Anzi rendere attuale, attualizzare, realizzare il sacro nell’uomo e nel vivente. Dio non deve abbandonare il mondo, ma vi deve trovare ospitalità. Il templum, il tempio, nel recinto boscoso, nella cavità di una roccia o nella templarità vera e propria, sarà il ricettacolo del divino in mezzo agli uomini, la sua presenza nel mondo. Il versamento del  liquido, sangue animale o liquido di un succo di un vegetale, avviene direttamente per terra, o nel fuoco sacro(agnihotra) e infine sopra un altare. Al centro di questo rituale shamanico,- il sacrificio-, c’è dunque un’offerta sacrificale (hotra) e un offerente del sacrificio(hothr), che conosce la procedura per cui il rituale è efficace. Un rituale non può essere sbagliato, è un rito, rto,un gesto, una serie di gesti, una liturgia, fondata sul pensiero giusto, adeguato. Che deve similare, render simile l’uomo al Hrta, all’Ordine Cosmico. Il rito, il rituale factus, il rituale del faktum, della cosa che viene fatta, (che agisce il fas,il fastus,la gioiosità e l’allegria del fasto, dell’abbondanza, la fertilità,allontanando il nefas l’effetto del diabolico, la povertà(penìa) che è Murty ,Morte) eseguito con regole precise, adeguate, deve garantire alla comunità la partecipazione al carisma della divinità. Il Dio si fa mangiare, consumare, se ne fa prendere una parte, solo dietro un pagamento, un versamento di un equivalente simbolico. E’ dunque uno scambio simbolico tra la Vita (sat) e la Morte(asat). La parola stessa è in forma di simbolo (samana), il canto, un alimento,(annadya), il succo, l’essenza del Brahman, la sostanza, Universale. Ripetuta più volte, scandita secondo dei metri sacri(viraj),il Brahman stesso, viene, attraverso la parola magica scandita più volte in versi e in strofe, letteralmente assorbita, inalata, memorizzata; il corpo stesso dell’officiante partecipa a questa che è una trasformazione, una metabolizzazione del sacro. Egli è uno sramana, un uomo del sacro, e un discendente sacerdotale (brahmana) delle sette famiglie di veggenti(rsi) che costituivano il primo clan sacerdotale, il primo collegio sacerdotale che ricevettero, videro forse nell’estasi del soma(somaspentha), ascoltarono, forse nella primordiale cerimonia  del fuoco(agnihotra), nella nera notte stellata, la rivelazione, audizione (sruti),dei Veda, la sapienza sacra. Poeti e veggenti raccontarono nelle forme del poema, del canto metrico quello che ritennero essere la parola divina e ad essa si ispiravano e ad essa invocavano la chiaroveggenza. ”Il Veda viene designato anche come <audizione>.Questo termine si riferisce al fatto che il testo vedico è destinato ad esser detto, cantato, mormorato o anche solo mentalmente pronunciato, non ad essere scritto; l’allievo impara dunque il Veda,ascoltando il suo maestro recitarlo e recitandolo a sua volta. Inoltre il Veda è una parola (vak) che vale non solo per il senso, ma anche per la forza inerente ai soffi e alle vibrazioni sonore che la manifestano. Non è un discorso sul mondo, è la quintessenza del mondo in quanto suono (schabda). Tuttavia questa parola si fa sentire dagli uomini e può da loro essere profferita perché in tempi immemorabili, uomini con poteri di “veggenti”(rsi), l’hanno vista .” (Ch.Malamoud, L’induismo, in l’Atlante delle Religioni. Utet).Tutti i cantori,Omero compreso, ebbero questa Musa ispiratrice , la Memoria sapiente(Smrti); recita Platone nel dialogo Ione, celebre recitatore di poemi omerici: ”Questa capacità che è in te di cantare bene Omero non è affatto un’arte, ma una potenza divina che ti dà l’impulso… eccoti d’un tratto risvegliato,e l’anima tua entra in danza.(è piena d’enthusiasmòs, dello spirito del divino”). Il fasto di questa sapienza venne celebrato nel sacrificio del cavallo, l’ashvameda, forse il sacrificio più antico legato alla regalità dei cavalieri Arii, ai guerrieri  Arii, che nella notte dei tempi domesticarono il cavallo e ne fecero un simbolo della loro forza e destrezza. Come i Veda, il cavallo fu il veicolo veloce della loro esistenza seminomade, della ebbrezza della cavalcatura, loro che si reputavano, nelle steppe e nei deserti, i figli del Vento. Come il cavallo, i Veda furono il loro boundary language system, un sistema di linguaggio di frontiera, tra la foresta e l’abitato. Nelle tombe dei Principi arii, fin dentro le città sacre ed originarie al nord del lago d’Aral, nei Kurgan appunto, tombe a tolos, scavate nel sottosuolo, i principi arii venivano seppelliti col sacrifico del cavallo; in alcune tombe a tolos si sono contati fino a dodici cavalli, insieme con le bardature del cavallo, delle bardature del cavaliere, con un corpo iscritto di tatuaggi che ripetevano all’infinito gli stessi motivi di appartenenza al clan, alla nazione, alle divinità arie, dei simboli del potere ario, dei servi, armi e bardature istoriate con motivi floreali, animali e scene di guerre.


La lettura di questo articolo è riservata agli abbonati
ABBONATI SUBITO!
Hai già un abbonamento?
clicca qui per effettuare il login.

Commenti

Lascia il tuo commento

Codice di verifica


Invia

Sostienici