Idalberto Fei "LE METAMORFOSI - Un viaggio tra i miti

Idalberto Fei "LE METAMORFOSI - Un viaggio tra i miti

diLa Redazione

Su una nave dalle grandi vele, un ragazzino chiamato Ovidio lascia l’Italia e viaggia per il Mediterraneo visitando i luoghi più significativi della mitologia antica: sono Atene, la Troade, l’isola di Creta, l’Egitto, la Sicilia. É così che impara a conoscere mille storie meravigliose, dalla discesa nelle profondità degli Inferi alla navigazione alla ricerca del Vello d’oro, dalla fuga dall’intricato labirinto del Minotauro alla guerra di Troia…

E questi miti da grande Ovidio li raccoglierà in un libro, Le Metamorfosi, per raccontare un mondo popolato di creature straordinarie, fanciulle trasformate in arbusti, ragazzi che diventano fiori, grandi duelli, interminabili guerre, rapimenti, divinità ora capricciose e vendicative, ora benevole e pietose. Le invenzioni e le immagini che compongono le storie de Le metamorfosi hanno fatto di questo testo  uno dei più grandi poemi dell’antichità e continuano ancora oggi a risplendere dopo duemila anni, ispirando poeti, scrittori, artisti figurativi, musicisti e, soprattutto, lettori di ogni età.

Idalberto Fei, scrittore, regista, burattinaio ha dedicato larga parte della sua attività ai ragazzi sia in teatro, Radio, TV che nel campo della scrittura. Dopo Orlando furioso e innamorato; Racconti d’inverno di Shakespeare; Gilgamesh il re della terra tra i fiumi; Fiabe delle montagne italiane, tutti pubblicati da La Nuova Frontiera jr, questo è il quinto classico che racconta ai giovanissimi. Di Ovidio e del suo mondo si è già occupato in più occasioni: curando I giorni delle metamorfosi, dove il poema è stato il filo conduttore per una visita itinerante al Museo del Palazzo di Venezia;  mettendo in scena -  prima all’Ara Pacis, poi ai Musei Capitolini e ai Musei Vaticani - Intorno ad Augusto, un ritratto del primo imperatore, l’uomo che del poeta fece e disfece la mutevole fortuna. Le sue più recenti produzioni per ragazzi sono il video La Montagna racconta (per il Parco Nazionale della Majella) e gli  spettacoli musicali Onde e Parla coi lupi.


 

Incuriositi abbiamo chiesto ad Idalberto Fei di scrivere un testo su Ovidio per i lettori di Menabò online

Ovidio sul Mar Nero

Ho passato la mia vita a scrivere di metamorfosi, se non tutta la vita certo i miei anni migliori. Ma quello che accadde nella mia esistenza non fu affatto una poetica trasformazione, piuttosto una cesura tragica e improvvisa. Una volta, a teatro, mi capitò di assistere alla catastrofica caduta di un attore che impersonando non so più quale alata divinità, mentre svolazzava sul palcoscenico, le corde che lo tenevano in alto si ruppero e il poveretto precipitò al suolo fra le risate degli spettatori – le mie anche – e fu portato via a braccia più morto che vivo. A me è capitata la stessa cosa, ma nessuno si è messo a ridere e io meno di tutti. Ero un uomo al culmine della sua fortuna, ricco, una famiglia felice, una villa splendida sul Campidoglio; soprattutto ero uno dei grandi poeti della Roma imperiale, come Orazio, come Virgilio, e frequentavo la corte e il divino Augusto ogni giorno. Poi una sera bussa alla porta un messo dell’imperatore, stavolta non porta l’invito ad un grande banchetto o a una qualche celebrazione, consegna invece un messaggio laconico: relegato sul mar Nero. Relegato, non esiliato, voleva dire che i miei beni non venivano confiscati ma che non potevo scegliere un luogo diverso, meno lontano, remoto, selvaggio. Ricordo quella notte come un incubo, le fiaccole accese, i servi che piangevano, Fabia, la mia sposa, pietrificata dal dolore, io che correvo per casa senza costrutto, scegliendo a vanvera pochi panni che ficcavo in una cassa - pensare che ero uno degli uomini più eleganti dell’urbe – buttando nel fuoco i miei libri, origini della mia disgrazia. Erano stati un carmen e un error a perdermi. No, il carmen non era l’Ars amandi, ma un componimento che ebbi l’estro d’inventare in una notte ubriaca, inutile cercarlo negli archivi, mai messo per iscritto eppure…basta, non ho mai voluto dire di più fino ad oggi e non lo dirò neanche adesso, posso solo affermare con forza che un poeta non dovrebbe mai occuparsi di politica, neanche per scherzo, e mi fermo qui. Partii da Brindisi due giorni dopo, rifiutai di portare mia moglie con me, c’erano le nostre proprietà da salvaguardare, le figlie da crescere; più di tutto, restando a Roma poteva intercedere per me presso l’imperatore. Il viaggio per mare fu un incubo, era inverno, venti e onde alte fino alla luna, vivo per miracolo, quando arrivai a destinazione neanche me ne resi conto, per fortuna c’era un medico a bordo.

Rimasi in catalessi per non so quanti giorni, seppi poi che i due soldati che avevano messo di guardia alla casa se n’erano andati, era chiaro che non sarei potuto scappare e poi, anche se ne avessi avuto la volontà e la forza, dove mai? Tomi era un avamposto militare, un piccolo villaggio sulla riva del Mar Nero; strade di terra battuta e casupole per non chiamarle capanne, una grossa palizzata in funzione di mura a difesa delle incursioni che barbari bellicosi, i Geti, facevano di continuo. La abitavano pochi mercanti, contadini e pastori, oltre a una piccola guarnigione di soldati romani. La mattina che riuscii finalmente ad alzarmi dal letto, mi guardai intorno: ero in una stanza piccola, imbiancata a calce; una cassapanca, un tavolo, uno sgabello, una brocca e un catino per l’acqua erano i soli arredi. La finestra era chiusa da un pannello di cuoio, lo spostai: il cielo era grigio, il mare era grigio, la terra dello stesso colore, non riuscivo a capire che ora fosse del giorno. Andai alla riva, buttai via la tunica, mi tuffai. Quando tornai indietro vidi la casa dall’esterno: bassa, a un solo piano, era però di mattoni e col tetto di tegole, seppi poi che era un vero lusso da quelle parti; come lo era avere addirittura due schiavi, una donna di mezza età, taciturna e dallo sguardo intenso e suo figlio, un ragazzino sveglio che mi guardava con curiosità e capiva subito quello che cercavo di comunicargli a gesti, greco o latino manco a parlarne.

I primi mesi furono terribili. Nessuno con cui conversare, nulla da fare, scrivere non sapevo e non potevo. Poi, un giorno, accadde un fatto: scoppiò un tuono. Di per sé non è cosa così eccezionale. Sedevo sulla riva del mare, grigio e immoto come uno stagno, potevo addirittura specchiarmi; ma stavolta senza innamorarmi di me come Narciso. Vedevo il volto di un uomo stanco, i capelli arruffati e striati bianco, la barba incolta, solo i miei occhi erano rimasti verdi. Mi andavo ripetendo: “Mare, tu che sei stato battuto per la prima volta dai remi di Giasone; terra, mai senza ghiaccio, mai senza nemici feroci, verrà forse mai il giorno in cui io, Ovidio, potrò lasciarvi per un esilio meno ostile? O dovrò vivere per sempre in questa barbarie e alla fine essere sepolto in questa terra di Tomi?” Cominciò a piovere, non succedeva da settimane, tutto era polvere e seccume, e scoppiò il primo tuono. Dovete sapere che i Geti, questi barbari   che ci circondavano da tutte le parti e che nei momenti di buona scorazzavano per il nostro campo a ubriacarsi e comprare in quel mercato miserabile, avevano un solo dio e altri non ne ammettevano. Erano convinti che tuoni e fulmini fossero divinità malvagie e rivali, così quando li sentivano e vedevano, lanciavano contro il cielo le loro lance per scacciarli lontani, e chi capitava in mezzo a quella pioggia di giavellotti povero lui, così scappai e mi rifugiai in casa. Credevano nell’immortalità i Geti, per loro la morte non era che un semplice cambio di paese; dunque non morivano ma andavano dal demone Salmoxis e ogni cinque anni gli mandavano un messaggero con una lista di richieste e preghiere. Ecco come funziona l’invio: tre di loro si preparano con le lance, altri quattro prendono il malcapitato prescelto, lo fanno ondeggiare e lo lanciano in aria, verso i giavellotti; se muore, tutto bene, la Divinità sarà propizia; se sopravvive, vuol dire che è indegno, lo buttano da una parte, ne acchiappano un altro e ricominciano da capo. Pensare che a detta di Erodoto, i Geti sarebbero i migliori fra tutti i popoli di questa desolata parte di mondo.

Rientrato in casa sedetti al tavolo. Avrei scritto all’Imperatore, aveva voluto darmi una lezione, gli avrei chiesto perdono, mi sarei umiliato, di certo mi avrebbe dato la grazia, eravamo sempre stati in buoni rapporti, da amici, per quanto si possa essere amici di un uomo che vuole farsi credere un dio in terra. Mai rispose, né a quella né a tutte le altre sempre più lamentose lettere che gli feci avere, invocando magari soltanto di essere relegato in un altro e meno spaventevole luogo. Quando Augusto morì fu strano, perché anche la perdita di un nemico ci scompensa; fu come se il muro che mi copriva la vista si fosse sbriciolato, ma dietro non c’era più la mia splendida Roma, solo un’arida steppa, la stessa che talvolta vedevo quando salivo sulle torrette di guardia di Tomi. Con ancora meno speranze scrissi a Tiberio, il suo successore, ma ero stato troppo amico della sua odiata moglie Giulia – in esilio ben prima di me nell’isola che voi chiamate Ventotene -per ottenere qualcosa. Infatti neanche lui mi rispose.

Come passai quei dieci, ultimi anni della mia vita? Bene non lo so nemmeno io. Nei miei viaggi giovanili nel Mediterraneo, dalla Grecia all’Egitto dalla Troade alla Sicilia, non avevo fatto che raccogliere le storie più mirabolanti e favolose, che poi, una volta poeta a tempo pieno, lasciando da parte l’avvocatura e le pubbliche carriere, volli raccontare nella mia opera più amata. Perché tanto amore per le Metamorfosi? Perché meglio di tutto rappresentano il continuo mutare della realtà, la sua inafferrabile impermanenza, il suo srotolarsi infinito; e poi – lasciamo da parte la modestia, falsa quasi sempre – sapevo che nessuno come me sapeva mettere in versi il trasmutarsi di una mano in rami sottili, il volgere di un corpo umano in un serpente strisciante, il cambiare della pelle in piume variopinte.  Certo, sarebbe bello poter dire che una volta sul Mar Nero seppi iniziare una nuova vita di redenzione, coltivando l’orto, consolando le vedove, insegnando ai fanciulli, assistendo gli infermi e magari con qualche crisi mistica; invece non feci niente di tutto questo, non ne avevo la forza e ancor meno la voglia. La mia freschezza di ragazzo quando giravo il Mediterraneo, quello sfarfallio da cui nascevano la mia voglia di vivere, dunque la mia poesia, era sparito per sempre. Imparai l’aspra lingua locale – sembrava un mal di gola più che un idioma - e tenni anche dei noiosi sermoni nei quali esaltavo la grandezza e la pietà di Roma. Scrissi, che altro potevo fare se non scrivere, addirittura un poema astronomico, i Phaenomena (che mi restava se non guardare le stelle?) e un piccolo libro sugli strani pesci del Mar Nero, chissà forse un omaggio al mio segno zodiacale, quello degli incauti e fantasiosi Pesci; era in versi e lo intitolai Halieutica. Non erano certo le mie cose migliori. Unica consolazione, le lettere che mi arrivavano di tanto in tanto, ancora più gradite dei doni che li accompagnavano – un libro, un mantello, un orcio di vino. Le più numerose erano di mia moglie Fabia, qualcuna delle figlie; talvolta era qualche amico a scrivere, ma erano ben pochi, ormai a Roma il mio nome veniva fatto di rado e a voce sussurrata. A parlare per me erano rimaste le mie opere, le Metamorfosi, soprattutto. Avevo bruciato l’originale in quella notte di follia, sono un perfezionista, c’erano mille particolari che volevo ritoccare, i passaggi fra un mito e l’altro erano spesso bruschi, meccanici. Però del libro c’erano in giro molte copie, un amico me ne fece avere una, ora il tempo per revisionarlo non mi mancava davvero; ma io non potevo più, era un altro Ovidio quello che lo aveva scritto. Lo pregai di aggiungere alla prima pagina delle copie che riusciva a trovare questa frase: “… quest’opera è stata sottratta all’incudine mentre la stavo ancora lavorando, manca la ultima lima”.

Credo di essere morto di noia, più che di malattia. Avevo cinquantasei anni, ero di costituzione robusta. Prima di intraprendere l’ultimo viaggio per tornare a dissolvermi nell’universo infinito dal quale ero emerso nascendo, chiusi gli occhi e mi chiesi se quelli Dei che avevo cantato con tanta arte, senza crederci un solo istante, non li avrei invece incontrati al di là della Grande Porta.

Idalberto Fei



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