Il Labirinto di Hiera
Paola Casulli “Ladakh, i monasteri sopra le nuvole”

Il Labirinto di Hiera

diLaura Lodico

Marettimo emerge dall’acqua e disegna a ponente un profilo elegante, si distende sul mare e guarda il cielo. Uomini e dei l’hanno vista così: intensa sotto i lampi del sole, evanescente all’ombra di luna, smeraldo nel mare più nostro, il Mediterraneo. Da occidente i venti alti sembrano spingerla in giù verso il Canale d’Africa, pezzetto di un puzzle che cerca l’antico incastro. Naviganti arditi in essa hanno visto non un’isola ma innumerevoli isole insieme. Del loro passaggio restano spessi strati di storia, sedimento e traccia di popoli arrivati da lontano portando con sé dei, guerre e civiltà.

Filosofi sensibili all’universale scorrimento degli esseri hanno tentato di ricomporre il caos, Eraclito ha creduto che “è da ciò che è in lotta che nasce la più bella armonia” e a questa consonanza il greco Polibio ha dato un nome, Hiera Nesos, terra sacra che naviga, rivelando al mondo il mistero di una terra che è approdo senza confini.

Il mare attorno all’isola è profondo, definitivo riparo per le flotte cartaginesi e romane, abissi blu di battaglie epocali. Lo stesso mare apparve fecondo agli arabi che nel nome descrissero l’epifania, Gazìrat Malitimah. Il tempo e i dominatori hanno cambiato il nome ma non l’essenza, così Marettimo ha attraversato i secoli contemplando le sue acque e fondendo in esse prières, salāt, oraciones, preghiere.

Il Mare, legame ed ostacolo, è quella parte del nome dell’isola che apre visioni, un limite che si estende fino all’orizzonte, un’apertura che diventa immensità enigmatica. Paesaggio fisico e paesaggio umano si fondono in un’unità originale: passioni e paure, sopravvivenza e vita continuano ad accavallarsi all’interno di uno spazio solcato da rotte, destini diversi e comuni.

Lontana poche miglia da Trapani e dall’Africa, Marettimo guarda l’Europa, i suoi occhi dal Portogallo scrutano l’America. La sua gente è ovunque. Ieri erano migranti su bastimenti per terre assai lontane, animo mesto e mente assediata da forza e necessità mentre la speranza fondeva insieme Ulisse e Colombo, idee e leggende. Oggi donne e uomini raccontano dell’argento del pesce tra le reti, il rosso del corallo fissato sulle scogliere, il giallo delle morbide spugne. Creature che del mare hanno espresso ricchezza e fragilità, fatica e ricompensa. Eco di un mondo condiviso che tra le vie del paese imprime le sue orme e guarda altrove.

Mi faccio spingere anche io dal vento e ascolto trame che hanno la forza di Iside e lo sguardo dolce della Madonna di Custonaci, entrambe donne, entrambe madri, grembo della nostra storia.

Dietro l’isola, vicino al mare c’è un labirinto. Dal sentiero che porta al faro di Punta Libeccio bisogna sporgersi un poco per vederlo: un ritaglio di costa dove grossi cubi di pietra hanno interrotto il loro cammino trovando incastro ed equilibrio. Dall’alto gli spigoli sembrano pinne dorsali di delfini di pietra, in realtà sono blocchi di marmo grigio, residuo di un sogno economico svanito.

Nessuna geometria governa il disegno del loro stare eppure lo spazio occupato genera la forma, intrecci di linee sottomesse ai capricci del caso dove un’intercapedine segue l’altra uguale e il giro sembra non avere fine, poi il mare delinea l’uscita. 

Ogni volta curiosa, per gioco, entro e mi perdo tra quelle pietre. Entrarvi è facile, difficile è tornare fuori. A Teseo, del resto, il filo non servì per addentrarsi ma per recuperare l’uscita. Dentro il labirinto di marmo la luce tratteggia ombre, abbaglianti contraddizioni, trincee e vie di fuga. Sono dentro un intrigo. Tutto è chiaro: è una storia e l’isola è il centro. È marmo e roccia, ma anche aria e vento, terra e sole, acqua e mare. Non cresce quasi nulla su questa sottile crosta di terra spazzata dal vento se gli occhi sono distratti, altrimenti dovunque spunta l’elicriso dai fiori gialli, grovigli di euforbia complice della maliarda Circe, il cisto coi petali di seta bianchi e i pistilli d’oro, lucente e sensuale.

Grande Madre, dea della Vita, grembo generatore da cui si nasce, Hiera, bella e feconda, ha la chiave che apre la porta della Terra, là dove il seme si cela e germoglia. L’isola sacra mi offre percorsi segreti, mi lascio condurre all’interno di essa dove uno specchio impietoso deciderà il ritorno. Il percorso segue l’evoluzione del pensiero e ne è la concretizzazione, mezzo per esprimere un’idea. Sopra di me gabbiani in volo tracciano dedali trasparenti, diversi, illimitati, dilatabili all’infinito. Dove conducono è incerto, un allontanarsi più che un dirigersi, un vagare più che andare. Io invece cerco un rifugio, una meta.

Hiera, emersa dal mare, mi accoglie. Eccola Iside e il suo regno segreto, i corsi d’acqua che si ramificano sopra e sotto la terra, le intricate gole dei crepacci di montagna, i boschi pieni di alberi e i sentieri che si biforcano. Ovunque è armonia e mi sottraggo alla solitudine del caos. Ascolto. Che voce viene insieme al suono delle onde? Si rincorrono, salgono, scendono sulla nuda roccia con quella calcolata armonia che appare spontanea come un dono divino. Hiera le trattiene in sé, infinite, a noi arriva l’eco di un dio saggio che nel mare dimora. La sua voce è tonante, euforia del mare e il racconto del tempo da gioia, sgomento, piacere, inquietudine, incanto, difficilmente indifferenza. Sedotta e intrappolata nel cuore di Hiera sento forte il richiamo intrigante e mistico. Tutti percorriamo un tracciato di rette, svolte, ostacoli, deviazioni che la nostra volontà si ostina a disegnare, ma ciò in cui crediamo ineluttabilmente dispone. L’isola si apre, un percorso fra pietre, danze, cieli e giardini, non voglio accorciare il tragitto e assecondo la ricerca. Dalla pietra dura, come il getto di una fontana, spunta la pianta di un cappero, fra le foglie esplode la corolla bianca costellata da stami viola.

L’anima decadente delle città che vivo e l’apocalisse in essa implicita solo qui lascia spazio alla speranza, ciascun mistero è una tappa nel percorso di crescita, un continuo divenire dell’uomo verso la conoscenza, una costante iniziazione quotidiana. Esco fuori e trovo l’acqua, azzurra, intensa, appena increspata, sembra cristallo.   

Sugli scogli il vento ha scolpito forme bizzarre, ovidiane metamorfosi, opere di infinita pazienza. Eolo dai tempi dei tempi è sempre passato da lì, prova e riprova finché in qualche modo non riesce a passare. Entra ed esce dal labirinto ma lui non ragiona, non ascolta, soffia, spinge e ogni volta che passa ti ricorda che quella è la sua strada da quando c’è il mondo. Circondata da un mare che ha bisogno del vento per rimanere vivo penso che mare e vento insieme mi portano tutto, storia e mondo, anche se io resto ferma. Dei e mortali insieme sull’isola sacra, attori di un movimento continuo motivato da pulsioni elementari ed eterne, personaggi iconici e figure primordiali. E non c’è gerarchia che possa sperare di avere la meglio sul senso di uguaglianza di tutti i viventi, uomini piante e animali. Hiera mi regala il dono di capire che anche in un sasso nascosto dentro un anfratto può celarsi una storia meritevole di essere immaginata.

Concreta, solida e cristallizzata Hiera risplende, sboccia ovunque la rosa dei venti, stella che ti porta in cielo, dentro e fuori il labirinto il senso del cammino, l’idea di un dinamismo dell’errare attraverso il quale scoprire l’essenza della vita, dell’uomo, dell’arte. Hiera è l’inizio del viaggio.












Foto di Sergio Sichenze












Foto di Sergio Sichenze

presentazione di Ode alla madre

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