Luigi Pirandello e verga: un passaggio di testimone?
Foto di Carlo Serafini

Luigi Pirandello e verga: un passaggio di testimone?

diRiccardo Renzi

Cosa dire di un autore immenso come Luigi Pirandello per celebrare i 90 anni dal Nobel? 

In primis proprio come Svevo, altro autore che apprezzo molto e ho affrontato a più riprese, troverà riconoscimento molto tardi. La sua opera, infatti, iniziò ad essere compresa solo a partire dal Primo dopoguerra. Il periodo d’oro del teatro pirandelliano è quello che va dagli inizi del 1918 agli inizi del 1923, mentre la consacrazione vera e propria avvenne con il Nobel nel 1934. Non staremo certamente qui a ripercorrere la sua biografia arcinota, ma ci concentreremo su alcuni tratti distintivi della sua opera. Una prima caratteristica dell’opera pirandelliana risiede nel fatto che tutti i suoi tratti stilistici sono già presenti a partire dal primo romanzo. A differenza di altri scrittori la cui produzione testimonia ricerche, svolte e pentimenti, Pirandello imbocca sin dall’inizio la sua strada [1]. Una strada, questa, chiara e ben distinta da quella di altri scrittori. Ne L’Esclusa, storia di una donna sola cacciata di casa dal marito, perché ritenuta adultera, sono rilevabili già tutti i temi di fondo del mondo pirandelliano: il contrasto tra apparenza e realtà, lo sfaccettarsi e l’articolarsi della verità, la quale, proprio come la realtà, non è più uno, ma sono molte, in base al punto di vista, un po’ come quelle kafkiane. Ma ancora, l’assurdità della condizione umana, la quale deriva dal caso, poiché la realtà sostanziale da esso è governata. Mattia Pascal rappresenta pienamente tale casistica umana. Pascal, uomo timido e modesto, si allontana da casa dopo una lunga litigata con la moglie. Casualmente vince al gioco una grossa somma di denaro e altrettanto casualmente legge sul notiziario un articolo che riporta la sua morte. Il protagonista pensa allora di approfittare delle circostanze e di iniziare una nuova vita, vera e autentica e lontana da tutto ciò che egli era stato. Così cambia nome in Adriano Meis e decide di andare a stare in una pensione a Roma. Ma qui la trama della sua vita non è aderente con la realtà e si sente senza forma e al di fuori del reale comune. A questo punto decide di ideare il suo suicidio, ovviamente quello di Adriano Meis, e di tornare ad essere il signor Pascal. Ma tornando a casa scopre che sua moglie si è risposata con un altro e dunque non gli resta altro, dopo il rifiuto della vita reale, che assumere una nuova forma [2]. Anche qui, come in tutta l’opera pirandelliana, è il caso a vincere sul protagonista. Proprio in questo risiede la dimensione artistica pirandelliana, nel voler trovare ad ogni costo una spiegazione alla casistica delle vicende umane. Per quanto concerne la convenzione sociale, Pascal, nella sua condizione di fuorilegge, deve constatare quanto vincolante essa sia per la piena realizzazione della propria personalità, per l’esplicarsi di una gamma di sentimenti sia pure modesti ed elementari come i suoi. Pascal si rende conto che non solo non si può combattere contro il caso, ma neanche uscire dalle convenzioni sociali, le quali sono sempre stringenti e vincolanti. 

Nei romanzi pirandelliani entra però in gioco sempre un ulteriore elemento, quello umoristico. Questo è però un umorismo particolare, grottesco e di pietà. Pirandello, negli stessi anni in cui scriveva Il fu Mattia Pascal, realizzava il suo saggio su L’umorismo (1908), nel quale affronta tutte le questioni relative alla creazione artistica e all’umorismo come teorizzazione della forma d’arte, giungendo alla conclusione che esso si sarebbe dovuto basare sul sentimento del contrario, cioè su una disposizione dell’artista a vedere sotto l’orpello della verità conclamate la sostanziale precarietà dell’essere umano nel suo vivere contraddittorio. In questa visione sentimento e ragione si completano vicendevolmente. Dunque, possiamo affermare che il relativismo gnoseologico ha tra le altre conseguenze quella di mettere a nudo la convenzionalità dei valori accettati, dei ruoli assunti e subiti, delle istituzioni che reggono la società stessa. Resta fuori dal nostro discorso l’animus. La sostanziale consapevolezza della rovesciabilità di ogni aspetto del reale e il sentimento del contrario fanno sì che l’umorista possa disprezzare e demistificare, ma nello stesso tempo ci si immedesima e si comprendono quei personaggi tanto assurdi che popolano l’opera pirandelliana [3]. Quindi la poetica dell’umorismo, se da una parte genera una rappresentazione grottesca degli infingimenti, dall’altra apre la via ad un ribaltamento di prospettive, stesso identico gioco attuato, per altri versi, da Kafka. Si rivela necessario richiamare l’attenzione proprio su tale coesistenza e opposizione di toni umoristici, di atteggiamenti dell’arte pirandelliana, ma soprattutto sul ruolo della pietà che il lettore non può non provare nei confronti di quei personaggi. 

C’è ora da chiedersi quel è la posizione di Pirandello nei confronti del verismo verghiano e di De Roberto? Esiste un solo romanzo del Nostro nel quale i canoni del verismo sono tutti pienamente rispettati: I vecchi e i giovani. La stesura dell’opera iniziò alla fine del 1905 e si concluse con la pubblicazione nel 1913. Molto richiama al suo interno tratti distintivi dei Viceré di De Roberto e dei Malavoglia di Verga, soprattutto nell’aspetto conflittuale tra nuove e vecchie generazioni. La nuova generazione alla perenne ricerca di nuove strade. Con pagine incalzanti e a volte violente viene bollata la realtà prosastica e fallimentare della società italiana post-unitaria. Tanti sono gli elementi messi in luce dalla sofferenza e la fame nelle campagne siciliane, alla bancarotta del patriottismo. Ci si trova di fronte a una espressione di quella crisi risorgimentale che nella narrativa siciliana è fortemente legata a Verga, De Roberto, Sciascia e Tomasi. 

C’è ora da chiedersi, sempre premettendo che Pirandello va considerato come un demolitore dei canoni veristi, se tra esso e Verga ci sia stato un passaggio di testimone intellettuale. Tale argomento è stato recentemente affrontato da Irene Gambacorti in Uno stile di cose: Pirandello e Verga pubblicato nel numero 1° del 2019 della rivista Studi Italiani. Per prima cosa bisogna chiedersi se i due si conoscessero personalmente e da quel che sappiamo la conoscenza personale c’era, ma fu ridotta a pochi episodi. Un fortuito incontro a Roma, ai primi di ottobre del 1904, è raccontato da Pirandello in un’intervista rilasciata a Giuseppe Villaroel, per il «Giornale d’Italia», vent’anni dopo (8 maggio 1924) [4]. Verga in quel periodo era fortemente amareggiato per l’insuccesso teatrale di Dal tuo al mio, si era autoconvinto a chiudere con la scrittura, proprio in quei giorni all’interno della redazione di «Nuova Antologia» incontrò Pirandello, che gli avrebbe donato una copia del Fu Mattia Pascal, fresco di stampa [5]. Da tale incontro ne conseguì un brevissimo scambio epistolare tra i due: «Gradì molto il pensiero e mi disse che l’avrebbe letto e me ne avrebbe scritto», dice nell’intervista Pirandello. «Infatti dopo sei giorni mi pervenne la lettera. Diceva delle cose molto gentili e molto tristi. Egli si sentiva ormai sorpassato dai tempi e vedeva spegnere la sua lucerna accanto alla quale si accendeva il lumicino dell’arte mia» [6]. Va però per correttezza detto che Verga aveva visto come suo possibile e potenziale erede un giovane futurista siciliano: Antonio Bruno [7]. In quegli anni Bruno fu apprezzato da grandi intellettuali italiani quali Papini, Marinetti e Verga. Proprio quest’ultimo gli scrisse:

«Grazie, caro Bruno, del dono e della simpatia letteraria che Le ricambio, pur da passatista, anzi da trapassato, il quale però vede e riconosce il molto che Lei potrebbe darci, anche senza gli acrobatismi futuristi di cui non ha bisogno poiché il futuro sta in Lei.

Auguri e saluti cordiali

Giovanni Verga» [8].

Verga aveva riconosciuto in Bruno tutta la sua grandezza e aveva capito che potenzialmente, essendo accomunati dalla natia terra, poteva essere il suo erede. La grandezza del Bruno fu riconosciuta fin da subito dai suoi contemporanei, ma la sua figura si perse in breve tempo nell’oscurità e sta a noi valorizzarla e riportarla alla luce.

Detto ciò, maliziosamente potremmo essere portati a pensare che Verga, una volta tramontata la stella di Bruno, che per cause personali, non di talento, svanì rapidamente, iniziò a cercare un nuovo erede intellettuali. Ecco, dunque, Pirandello. La lettera di Verga a Pirandello è andata perduta, ma la sua risposta di cui a lungo è stata nota un’unica frase, è stata invece recentemente pubblicata, ed è questa: 


«Illustre Maestro, permetta ch’io Le esprima il vivissimo piacere che ho provato nel leggere la Sua ambitissima lettera. Ella forse non può bene valutare questo mio piacere, perché non sa l’ammirazione profonda che io ho sempre avuta per l’arte Sua e per Lei personalmente, uomo e scrittore. Ma quest’ammirazione appunto per l’arte Sua possente mi ha pure spinto, sempre, a cercare un’altra via, in arte, e una diversa espressione, per non ripetere con voce minore quel che altri, Lei ad esempio, aveva già detto con maggior voce. E mi sono sforzato di formarmi un particolar modo di vedere, di pensare, di sentire, e ingegnato d’esprimere questa visione, questo pensiero, questo sentimento in un mio modo particolare. La natura mia stessa e i tristi casi della vita mi hanno aiutato, ma vi sono io finora riuscito bene? Le Sue parole, Illustre Maestro, mi confortano. Sogno altre cose, e spero che le forze mi basteranno a dar loro vita. Si abbia Ella intanto i miei più sinceri e vivi ringraziamenti, l’ossequio mio devoto e l’espressione del mio animo grato. Roma, 1.xi.1904 Via San Martino al Macao, 11 Suo obbl.mo Luigi Pirandello» [9]. La presente lettera è tutta tesa a segnare la propria differenza, a sottolineare la novità della propria ricerca rispetto all’opera «possente» dell’ammirato «Maestro». «cercare un’altra via, in arte, e una diversa espressione»; formarsi «un particolar modo di vedere, di pensare, di sentire», e ingegnarsi «d’esprimere questa visione, questo pensiero, questo sentimento in un modo mio particolare». C’è da chiedersi perché Pirandello nell’intervista del 1924 fatta da Villaroel vada a sottolineare come si senta in continuità con Verga. Pirandello è ormai uno scrittore e commediografo affermato, Verga è morto da due anni, perché sottolineare tali punti di continuità con la tradizione verghiana? Dell’episodio dell’incontro del 1904 decise di riportare nell’intervista dalla missiva perduta, solo l’immagine della lucerna dell’arte verghiana che si spenge, e dell’altra (la propria) che si accende, perciò è ipotizzabile che egli voglia avvalorare evidentemente l’idea di un passaggio di testimone dal vecchio maestro dimissionario a lui, unico vero erede di quella tradizione letteraria siciliana. Va inoltre detto come egli con il discorso pronunciato il 2 settembre 1920 al Teatro Bellini di Catania, in occasione delle celebrazioni per gli ottant’anni di Verga, Pirandello abbia avuto modo di legare il suo nome a quello a quello del Maestro, ricordiamo che ormai la stella di Bruno era tramontata. Pirandello però fino a quel momento non aveva particolare attenzione al Maestro: anche nell’articolo del 1890 Prosa moderna (Dopo la lettura del «Mastro-don Gesualdo» di Verga), il romanzo verghiano, citato solo nel titolo, Pirandello si limita a fornire lo spunto per lamentare gli stenti della moderna prosa narrativa italiana, e i falliti tentativi di trovare una lingua viva e spontanea [10]. L’ammirazione per Verga da parte di Pirandello come grande maestro della sua terra è innegabile, ma non c’è un’esaltazione, anzi vuole discostarsene sottolineando la sua autonomia artistica. È noto come Pirandello già a partire dal 1892, a Roma, conobbe e frequentò assiduamente Luigi Capuana, con cui instaurò un rapporto di scambio intellettuale che giunse al 1907. Il fatto rilevante per la nostra indagine è insito nella documentazione di questa lunga relazione – lettere, recensioni, saggi –, il Maestro/Verga non viene mai menzionato[11]. Il silenzio è però reciproco, anche l’epistolario verghiano ad oggi edito non ci dice nulla, o quasi nulla su Pirandello. L’unica eccezione è quella costituita dallo scambio con Edouard Rod, il 20 gennaio 1905 [12], Verga manda saluti a Pirandello, Ferraris e Cena, cioè il gruppo della «Nuova Antologia» [13]. L’amicizia che legava Pirandello a Capuana è da considerare determinante per la scelta del Nostro di dedicarsi alla narrativa: Proprio a Capuana Pirandello dedicò il primo romanzo, L’esclusa, datato al 1893, sulla «Tribuna» nell’estate 1901, aperto appunto nell’edizione in volume (Milano, Treves, 1908) da una lettera a Capuana, in data «dicembre 1907», poi espunta nell’edizione definitiva del 1927 [14].

Cerchiamo ora di capire come Pirandello venne sentito dalla critica se in continuità o discontinuità con la tradizione verghiana. Per fare ciò ci può aiutare un articolo di Giovanni Spadolini, Fogli del mio Block-notes: Pirandello a Parigi, pubblicato in Nuova Antologia, fascicolo 2158, aprile-giugno 1986 [15]. Spadolini nella sua analisi critica dell’opera teatrale pirandelliana partì dalla immediata contemporaneità, cioè dallo spettacolo di J. P. Vincent, Six personnages en quete d’autor, in scena proprio nei mesi della stesura dell’articolo presso il Theatre de l’Europe di Parigi, il quale si pone l’obiettivo di svestirlo della gravità pontificale. Una sorta di dissacrazione di chi negò costantemente il sacro. «Questo Pirandello denudato, spogliato, smitizzato, rituffato nelle passioni elementari e un po’ torbide da cui la scoppiettante dialettica filosofica tentava costantemente di riscattare i suoi sfortunati eroi, questo Pirandello è quasi l’antitesi del Pirandello che conquistò la Francia nel 1923, attraverso la sorprendente regia di Pitoeff» [16]. C’è ora da chiedersi come era quel Pirandello che conquistò la Francia nel 1923? Nel 1923 i sei personaggi comparivano da una botola sotto al palcoscenico da una botola, innescando, quasi casisticamente, lo stupore degli spettatori. L’elemento di novità rispetto alla narrazione teatrale precedente si percepisce costantemente. Cerchiamo ora di mettere in luce le principali novità del teatro pirandelliano:

  • Prima di Pirandello il teatro, in particolare quello verista, si poneva l’obiettivo di una rappresentazione della realtà come un dato di fatto, era ancorato alla tradizione, come sottolineato anche da Gramsci, aristocratica-cattolica di concepire l’oggettività del reale. Pirandello elaborò invece una visione del tutto differente, non statica, poiché la realtà non lo è, anzi è dinamica, e non è possibile parlare di un’unica realtà, ma di molteplici, le quali variano a seconda del punto di vista.
  • Questa caratteristica pirandelliana, che potremmo definire raziocinante, determina il loro arrovellarsi a ragionare e a spiegare. Questa è però una condizione inevitabile, derivante dal conflitto sulle diverse interpretazioni della realtà. Tale condizione di continuo ragionamento, quasi di Amleti nei panni di borghesi, origina proprio dal tentativo di voler rompere il carcere della solitudine, o meglio dal bisogno di far combaciare le opposte visioni di una realtà e quindi stabilire un terreno di colloquio. Ma ciò non è possibile, dunque, ai vari protagonisti, non resta altro che accettare la propria situazione di solitudine. La solitudine/carcere rappresenta quella forma, quella maschera che imprigiona la vita. Si è inchiodati in una situazione, non per colpa propria, ma per una visione distorta degli altri. Pirandello, con una prosa del tutto nuova, lontana come quella di Svevo e Kafka da suggestioni letterarie e rondesche, spezzata e espressionistica, ha reso il tema dell’incompatibilità con estrema efficacia e ne ha fatto poesia con un’inconfondibile fusione di accanimento logico e di pietà umana.
  • In ultimo luogo va aggiunta una terza novità introdotta dal Nostro: la dissoluzione della finzione scenica. Realtà e finzione divengono la medesima cosa e nei Sei personaggi in cerca d’autore trova il suo più notevole esempio. Questo si attualizza mediante l’eliminazione della “quarta parete” che convenzionalmente separa gli attori dal pubblico. Pirandello ideò effetti di straniamento che gli permettevano, nel vivo della recitazione, di rifletterci sopra e di discuterla mandando totalmente in frantumi quel patto/convenzione tra attori e pubblico. Tutto è teso alla rappresentazione dell’incomunicabilità insita e intrinseca ai personaggi pirandelliani. Questa esplode proprio quando gli attori, pregati dai sei personaggi, cercano di rappresentare la vicenda, ma essi si sentono traditi da tale tentativo di oggettivazione, poiché la loro realtà esistenziale è un’altra. L’innovazione tecnica pirandelliana sancisce il crollo delle consuetudini di verosimiglianza sacre al teatro tradizionale.


Resta ora da chiederci un autore così innovativo poiché si sente erede di Verga? Forse solo una questione di comodo? La risposta è probabilmente sì da entrambe le parti, a Verga faceva comodo designare un degno erede dopo il tramonto di Bruno, mentre a Pirandello, nonostante fosse già un autore affermato, conveniva mettersi lungo la linea della tradizione letteraria siciliana scandita da Verga. Gli incontri di persona tra i due di cui si ha memoria comprovata, sono solo due, il primo, quello di cui si è parlato in precedenza presso la redazione di Nuova Antologia, mentre il secondo a Catania, in occasione delle celebrazioni per gli ottant’anni di Verga. Il comitato organizzatore cittadino, presieduto dall’on. Gabriello Carnazza e animato da Giuseppe Villaroel, affidò a Pirandello l’orazione celebrativa, al teatro Bellini, nel pomeriggio del 2 settembre, l’iniziativa di maggior eco tra quelle promosse [17]. Essendo stato l’evento organizzato da Villaroel, sicuramente Antonio Bruno non sarebbe potuto comparire tra i relatori, poiché, come è noto, i due ebbero un acceso battibecco. Infatti, una delle invettive più pesanti fu proprio quella che Bruno mosse contro Giuseppe Villaroel in Un poeta di provincia [18]: «Io non perderò il fiato ad insegnarli che il ritmo d’un’immagine risulta dalla sua essenza, e che è l’attuazione lirica, vale a dire assoluta, a produrre l’armonia, cioè la proporzione tra le parti del suo mezzo, che sarà tanto più assoluta, e perciò tanto più armonica, quanto più assoluta è l’attuazione dell’immagine del mezzo, qualunque esso sia: linea, suono o parola». In queste poche righe è contenuto il concetto di arte secondo il Bruno. Egli si scagliò con tanta violenza contro Villaroel poiché lo riteneva la personificazione dell’anti-arte. 

Con dispiacere anche di Villaroel, Verga non fu presente all’evento celebrativo, per l’occasione inviò in sua rappresentanza Federico De Roberto. Sul comportamento di Verga esistono in realtà racconti discordanti, che progressivamente spingono la figura dell’anziano scrittore, sdegnoso e silenzioso, in un’aura quasi leggendaria. Secondo un primo racconto di Villaroel, Verga sarebbe intervenuto al banchetto conclusivo, per «mostrare la sua gratitudine e rendere omaggio a Pirandello», sparendo poi alla chetichella, durante i discorsi e i brindisi: «Finalmente, a sera, con grande stupore di tutti, apparve Verga al banchetto che si teneva in suo onore. Era pallidissimo e, secondo il suo solito, taciturno. Aveva voluto mostrare la sua gratitudine e rendere omaggio a Pirandello; ma si notava subito che lì, fra tante curiosità, fra tante luci, fra tanti fiori, stava a disagio. Ascoltò alcuni discorsi che si tennero alla fine del pranzo, quasi nascosto fra i nobili del Circolo che lo avevano accompagnato nella sala, e disparve, all’improvviso, senza che alcuno lo sospettasse, mentre si brindava ancora alla gloria della sua arte» [19]. Villaroel pubblicamente giustificò il comportamento del Maestro, ma in uno scambio epistolare sottolineò il suo stato d’animo amareggiato per la mancata presenzazione. In una redazione successiva, infatti, Villaroel parla di una breve apparizione: «Soltanto, a tarda notte, egli venne a cercare l’oratore per ringraziarlo. Ci eravamo riuniti tutti alla Birreria Svizzera. Un abbraccio, poche affettuose parole. E si partì subito, col suo seguito di nobili, il vecchio maestro, tutto grave e accigliato, nella sua dignitosa canizie» [20]. Stando, invece, alla testimonianza di Corrado Alvaro, il quale con molta probabilità rielaborò i ricordi dello stesso Pirandello, «il vecchio autore de I Malavoglia, ascoltato il discorso del suo conterraneo, si volse a lui dicendo: “Caro Pirandello, va bene. Ma poi, che cosa sono alla fine queste feste? Quello che è scritto è scritto” [21]». Ciò che a noi interessa, al di là di come siano realmente andati i fatti, è che i due si incontrarono nuovamente e che non sia Pirandello a scegliere di dedicare uno studio a Verga: l’occasione che gli viene offerta lo spinge tuttavia a un serio confronto con ragioni stilistiche e presupposti teorici dell’arte verghiana, o meglio a cercare di chiarire le linee di un confronto implicitamente iniziato molti anni prima, con l’inizio della sua stessa avventura di narratore. Da ciò ne deriva la rilettura di quarant’anni di vita letteraria nazionale, «per riconoscere la necessità del “ritorno a Verga” osservato in atto nel dopoguerra, come riscatto delle ragioni intime ed etiche dell’arte, contro il grottesco carnevale dannunziano, con la sua funesta ubriacatura di parole, primo responsabile a suo parere del silenzio calato sull’opera del catanese» [22]. Pirandello da una parte riconosce, anche in chiave antidannunziana, la grandezza di Verga e dall’altra decide di sfruttare le circostanze per accoglierne pubblicamente la pesante eredità. 


––––––––––––––

[1] A. Lombardi, Luigi Pirandello, Milano, Centauria, 2017, p. 34.

[2]   S. Guglielmino, Guida al Novecento, Milano, G. Principato S.p.A., 2014, p. 218.

[3].   A. Lombardi, Luigi, cit., p. 43.

[4]     A. Lombardi, Luigi, cit., p. 43.

[5].   Questa è l’unica opera pirandelliana presente nella Biblioteca di Verga. Cfr. Biblioteca di Giovanni Verga: catalogo, a cura di C. Lanza, S. Giarratana e C. Reitano, introduzione di S.S. Nigro, Catania, Edigraf, 1985, p. 348.

[6].   G. Villaroel, Colloqui con Pirandello, in Il Giornale d’Italia, 8 maggio 1924.

[7]. R. Renzi, Un futurista dimenticato: Antonio Bruno, in Il Convivio, n. 3, 2023; R. Renzi, Il “Leopardi siciliano” la storia di Antonio Bruno un futurista dimenticato, in Il Borghese online, n. 5, 2023; R. Renzi, Antonio Bruno nascosto, in Il Borghese, n. 7, 2023; R. Renzi, Antonio Bruno privato. Storia del “Leopardi Siciliano”, in Utsanga, n. 35, 2023; R. Renzi, Antonio Bruno e la letteratura russa, in Utsanga, n. 40, 2024.

[8].   G. Caserta, Io, Antonio Bruno, Biancavilla, Comune di Biancavilla, 1991, p. 39.

[9]    A. M. Morace, «Un’altra via, in arte». Un inedito epistolare di Pirandello a Verga, in La modernità letteraria, n. 9, 2016, pp. 121-130: il testo della lettera è a pagina 123.

[10].   L’articolo comparve per la prima volta presso la rivista Psiche poi venne ripubblicato in L. Pirandello, Verga e D’Annunzio, a cura di M. Onofri, Roma, Salerno Editrice, 1993, pp. 88-94.

[11].   P.M. Sipala, Capuana e Pirandello. Storia e testi di una relazione letteraria, Catania, Bonanno, 1974.

[12].   Otto mesi dopo l’incontro ricordato nell’intervista.

[13].    G. Verga a E. Rod, Catania, 20 gennaio 1905, in Carteggio Verga-Rod, introduzione e note di G. Longo, Catania, Fondazione Verga, 2004, p. 399.

[14].    P.M. Sipala, Capuana e Pirandello, cit., pp. 26-28.

[15].    G. Spadolini, Fogli del mio Block-notes: Pirandello a Parigi, in Nuova Antologia, f. 2158, aprile-giugno 1986, pp. 25-30.

[16]    G. Spadolini, Fogli del, cit., p. 25.

[17]    Omaggio degli scrittori italiani a Giovanni Verga, Catania, Galatola, 1920. Cfr. L’omaggio augurale dell’Italia intellettuale e della città di Catania a Giovanni Verga nel suo ottantesimo compleanno e La grande serata al Massimo in onore di Giovanni Verga, in Giornale dell’Isola, 2 settembre 1920 (la conferenza di Pirandello si tenne alle 17); in Le onoranze di Catania a G. Verga, nel quindicinale Giornale dell’Isola letterario, II, 9, 6 settembre 1920, p. 3.

[18].   Omaggio degli scrittori italiani a Giovanni Verga, Catania, Galatola, 1920. Cfr. L’omaggio augurale dell’Italia intellettuale e della città di Catania a Giovanni Verga nel suo ottantesimo compleanno e La grande serata al Massimo in onore di Giovanni Verga, in Giornale dell’Isola, 2 settembre 1920 (la conferenza di Pirandello si tenne alle 17); in Le onoranze di Catania a G. Verga, nel quindicinale Giornale dell’Isola letterario, II, 9, 6 settembre 1920, p. 3.

[19]    G. Villaroel, Verga e Pirandello, in Gli occhi dei figli ed altre prose, Milano, steli, 1943, pp. 113-117, a p. 117.

[20].   G. Villaroel, Verga e Pirandello, in Gli occhi dei figli ed altre prose, Milano, steli, 1943, pp. 113-117, a p. 117.

[21].   C. Alvaro, Introduzione, in L. Pirandello, Nascita di personaggi (Carte inedite: 1889-1933), in Nuova Antologia, lxix, 1483, gennaio-febbraio 1934, pp. 3-5.

[22]     I. Gambacorti, Uno stile di cose: Pirandello e Verga, Studi Italiani, n. 1, 2019, p. 53.

 

Commenti

Lascia il tuo commento

Codice di verifica


Invia

Sostienici