Eugennio Montale
Eugenio Montale

Eugennio Montale

diWalter Di Chiara

Quella degli anni «1939-1946» è la datazione che Montale stesso indica per i tempi che lo hanno impegnato nella stesura della Primavera hitleriana, una delle liriche più rappresentative confluite nella Bufera e altro (1956). Aldilà del dubbio che una datazione singolare come questa, cornice precisa del secondo conflitto mondiale, può destare - anche se certo non è da escludere una revisione del testo nel corso di quegli anni -, rimane il fatto che Montale non abbia voluto pubblicare una poesia come questa prima del 1946 sulla rivista Inventario; vale a dire non prima che la guerra fosse terminata.

Complice del rinvio di questa pubblicazione è senz’altro il suo argomento: la visita di Hitler e Mussolini a Firenze nella primavera del ’38. Quello dei prodromi della guerra - tra questi, soprattutto, la segregazione razziale - è un tema che scorre già, ma mai in maniera del tutto esplicita, lungo gran parte della trama delle Occasioni, fino all’anno della prima edizione della raccolta, il ’39. Si pensi, tra gli altri luoghi, a Dora Markus o al lungo addio che occupa la sezione dei Mottetti ispirata soprattutto da Irma Brandeis. Dal momento che l’autore non dava spesso nemmeno un nome alle vittime della violenza di quegli anni a lui note - di cui pure ha tratteggiato il destino -, la censura fascista non poteva che limitarsi a riconoscervi, alla lettera, il solito tema della lontananza o altri tipici della fenomenologia amorosa. Ancora più inosservata doveva passare agli occhi di un censore la descrizione di scenari violenti o gravi - come quello di Nuove stanze -, per niente atipica nella poesia degli anni precedenti. È passata così per anni in sordina l’allusione non più solamente a uno stato d’animo di Montale, ma a quello di un’«io», con tutte le sue relazioni, inserito in un’esperienza collettiva raccapricciante.

Uno dei casi più significativi di questa fase della carriera montaliana è rappresentato da Tempi di Bellosguardo, poemetto in tre parti che, come già Mediterraneo negli Ossi di seppia, occupa la terza sezione delle Occasioni. Composto probabilmente non molto tempo prima dell’uscita della raccolta, è uno dei testi di più difficile lettura al suo interno, ricco com’è di impliciti e di altri espedienti letterari - oggetto di questo lavoro - che rimandano a un’apocalisse imminente, non apertamente indicata, ma suggerita dai segni di una natura presaga della Bufera che verrà.

Bellosguardo è uno dei colli che contornano Firenze, già citato nelle Grazie di Foscolo, qui richiamate come «tessitrici celesti» al v. 20 della terza parte; nel poemetto, il luogo si fa centro del rapporto io-cultura, fusa qui con la natura circostante. I «tempi» del titolo, invece, si possono leggere in senso storico - in quanto ai riferimenti alla cultura umanistica intesa in senso lato, quella che ha visto quel luogo come uno dei suoi scenari principali, e al presente - e atmosferico - si passa dalla sera placida del primo movimento, al vento freddo che scuote la vegetazione del secondo, all’inizio della bufera dell’ultimo -.

Molta parte della critica sottolinea anche come i «tempi» in questione possano essere di derivazione musicale - anche sotto l’aspetto metrico-ritmico il primo e l’ultimo si direbbero un adagio, mentre il secondo un allegro -, tre come i movimenti canonici dei concerti per strumento solo e orchestra; in questo caso da sostituirsi con la coscienza del poeta - che è anche collettiva - e la natura circostante.

Una coscienza, dunque, collettiva, che si manifesta già nel primo dei tre «tempi», dopo un primo periodo che introduce il lettore al «brusìo della sera» (v. 3), subito nel soggetto, in iperbato, della frase successiva (vv. 10-11):

questa vita di tutti non più posseduta

del nostro respiro […].

I «tutti» del testo non possiedono la propria vita più del proprio respiro, sono «gli uomini / che vivono laggiù» (vv. 13-14) rispetto al poeta che li guarda da Bellosguardo.

L’immagine di una sera placida viene a stridere con ciò che l’autore può contemplare dall’altura ed elenca poco sotto (vv. 18-21):

[…] con grida dai giardini

pensili, con sgomenti e lunghe risa

sui tetti ritagliati, tra le quinte

dei frondami ammassati […]!

Il movimento si conclude con l’immagine di una stella che cade prima di aver lasciato il tempo di esprimere un desiderio («prima / che il desiderio trovi le parole», vv. 23-24). Non è difficile, oggi, leggere nelle «grida» e nelle «lunghe risa» di questa parte le condizioni rispettive di vittime - ancora più identificabili con i «frondami ammassati» di sotto - e carnefici. Si noti anche il contrasto tra i «giardini pensili» e i «tetti ritagliati»; elemento, il primo, che allude a una relazione armonica tra uomo e natura e va a cozzare con le rigidità delle costruzioni umane. L’ambivalenza di queste componenti, che si potrebbero scambiare come di contorno - magari con le urla e le risate di giovani in gita -, è quella che ha preservato il poeta da un riferimento, troppo esplicito per la censura dell’epoca, all’abbrutimento di quegli anni. A ogni modo, qui, è la natura stessa - ora allegorica, ora più chiaramente umana - a disseminare nel testo indizi che ci riportano alle reali intenzioni di Montale e a scoprire gli impliciti del poemetto.

Il secondo movimento comincia con l’immagine di alcune «fronde» «derelitte» (vv. 1-2) che l’autore pone rapidamente in parallelo con le «più ancora / derelitte […] fronde / dei vivi» (vv. 10-12) perse in un tempo sconnesso («nel prisma di un minuto», v. 13). Da qui, «le membra di febbre» (v. 14) condannate all’irrequietezza e, di nuovo, una sezione elencativa che attraversa un affastellarsi di paure e morte, una «fugace altalena tra vita / che passa e vita che sta» (vv. 21-22). È una climax che culmina nella sentenza dei vv. 24-26:

quassù non c’è scampo: si muore

sapendo o si sceglie la vita

che muta ed ignora: altra morte.

Anche «quassù» - contrapposto agli «uomini / che vivono laggiù» dei vv. 13-14 del primo movimento -, su un’altura che ha assistito al compiersi dell’umanesimo non si sfugge alla morte, sia essa reale, quella in braccio alla quale si va con consapevolezza, o morale, quella di chi si adatta al sistema imparando a ignorarne le storture. È proprio in questi ultimi versi che il testo riesce a porre in evidenza, nascosta anche dalla frammentarietà sintattica del componimento, una delle questioni principi di quel momento storico: quella di dover scegliere da che parte schierarsi. Nello stesso anno in cui cominciò la guerra, Montale riusciva a celare questo messaggio nell’indeterminatezza potenziale dei versi che vi fanno da contorno.

 Segue la sentenza appena vista un richiamo nostalgico a un «onore» (v. 30) e a un «fedeltà» (v. 32) antichi. Ne rimane soltanto il «gesto» (vv. 33, 35) salvifico - messo anche lui a dura prova dal clima circostante -, che può ancora lentamente penetrare, «con l’esile / sua punta di grimaldello» (vv. 39-40), in qualche erede di quella civiltà perduta.

Nell’ultimo movimento la tipica “quiete dopo la tempesta” si trasforma in una tregua carica di dubbi sull’avvenire. La ricerca in questa sezione, che avviene attraverso il filtro di «una clessidra che non sabbia ma opere / misuri e colti umani, piante umane» (vv.11-12), è la ricerca non solo di un umanesimo aldilà del tempo, ma di un’umanità che sembra essere perduta; le «piante umane» sono quelle dei giardini fiorentini, visibili dal colle, che esprimono nuovamente una vita ideale in armonia tra uomo e natura.

I segni che il poeta riporta nell’ultima sezione elencativa del poemetto indicano ancora una situazione di precarietà. La «bufera» evocata al v. 2 fa qui il paio con un ultimo segno apocalittico, quello delle «locuste» che «arrancano piovute / sui libri dalle pergole» (vv. 18-19). Le due immagini completano la complessa allegoria con cui il poeta indica il passaggio di una violenza distruttiva, dimentica di ogni valore, che riesce a scuotere anche luoghi per lungo tempo inviolati. Dopo un ultimo passaggio sul destino spezzato degli uomini («opera / […] interrotta / sul telaio degli uomini», 19-21), la reticente «E domani…» (v. 21) conclude il poemetto nel timore di un futuro incerto.

Si è visto, tramite l’esempio di questa breve analisi, quali strumenti - aposiopesi, allegorie, ampie sezioni elencative, frammentazione della sintassi etc. - Montale abbia potuto adoperare per parlare, lasciare dei segni dell’abbrutimento di quegli anni. Al contrario di molti dei suoi contemporanei («E come potevamo noi cantare…» è l’incipit di Alle fronde dei salici di Quasimodo, pubblicata nel ’46), con Le occasioni, Montale riesce a lasciare una traccia tangibile di quel periodo e in quel periodo: l’esperienza reale di un uomo immerso in una società privata di quei valori che tentava ancora di trovare in Tempi di Bellosguardo.


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