Ofelia Giudicissi

Ofelia Giudicissi

diCarol Guarascio

Una donna fuori dagli schemi. Un capobranco. Soprattutto considerando il luogo in cui è nata. Una donna poliedrica, che si dedica alla poesia, alla musica, alla pittura con passione e sensibilità. Usa lo sbalzo su rame, il peltro, i gessetti. Ogni casa in cui ha abitato ha la porta aperta, dove va sempre tanta gente, dove Bisbano, Zarafino, gli eremiti del paese, trovano un piatto caldo che li aspetta. Ofelia si interessa di archeologia, alla Cona, area abitata già dal Neolitico, trova importanti reperti e propone una nuova etimologia dal greco per il nome del suo paese, Palaios Chorion, “paese antico, regione antica”, nome che userà agli inizi degli anni ’70, per il primo club culturale del paese da lei fondato.

Il 13 settembre 2021 saranno passati quarant’anni dalla morte di Ofelia Giudicissi Curci, settima di dieci figli, poetessa calabrese nata l’11 maggio del 1934 a Pallagorio, un paese arbëreshe dell’attuale provincia di Crotone.

Il matrimonio con Antonio Curci, nel 1959 dopo un brevissimo fidanzamento (cosa inusuale per quell’epoca), non le impedisce di coltivare ed esprimere tutta la sua personalità: è un rapporto davvero speciale il loro. Vive in uno stato di felicità e benessere, fino a quando gli eventi della vita prendono strade diverse.

 

 

Ofelia ha scritto le sue poesie in italiano ma è sempre stata legata alla cultura arbëreshe del suo paese e la sua prima raccolta, pubblicata nel 1964, porta il titolo Pallagorio.

Nel 1981, mentre scriveva il suo ultimo libro Memorie di un profilo meridionale morì improvvisamente a 47 anni, lasciando due figli molto giovani. Nel 2011 è stato istituito un premio letterario a suo nome.

 

I versi di Ofelia manifestano una sapienza maturata negli anni, un approccio diretto verso la poesia e una naturale predisposizione verso la metafora.

Critici autorevoli come Giulio Nascimbeni e Giuliano Manacorda la apprezzarono molto e, dopo il trasferimento a Roma per la carriera di professore del padre, la poetessa riuscì ad inserirsi bene nell’ambiente culturale, entrando in contatto anche con Ignazio Silone.

La capitale è un luogo dove è possibile fare poesia più agevolmente eppure a volte Ofelia trova Roma insopportabile, la definisce una maledetta città, una piovra immane:

 

Roma è un deserto

ed io sono l’arabo

senza oasi, senza cammello

 

Ofelia si sente privata di un mondo che le appartiene nel profondo, che l’ha generata, che è carne della sua carne

 

…della nebbia che avviluppa

la vigna

del colore dei pampini

e dei ricci che feriscono

i funghi.

Raccontami

del focolare

dell’autunno

dell’autunno che qui

non riesco a trovare.

 

La città non riesce a farla sentire a casa e anzi sente di esserle sempre più estranea. La libertà vive lontano dalla città, la libertà è azzurra, come il mare.

 

Oh come il mare risolve ogni cosa.

 

Appena capita l’occasione, che sia inverno o estate, Ofelia corre al Monte, il suo rifugio naturale, conosciuto anche come Monte Giudicissi o Monte Pomillo, una località dove si trova la casa di famiglia, a 4 km dal paese, e lì è tutto più semplice, più azzurro per l’appunto. Anche il verso a volte si fa più lungo, il pensiero si distende e si avviluppa di certezze. Non è facile sradicarsi, non sentire tirare il cordone che lega alla terra madre generatrice.

 

Sono quattro i momenti più difficili nella vita della poetessa: il 1° settembre 1964 muore suo padre Vincenzo Carmine, la sua guida spirituale, il suo punto di riferimento, a cui dedicherà diverse poesie; nel 1970 perde una bambina, nel 1973 Antonio, suo marito, perito chimico specializzato in reattori per la fusione del platino si ammala a causa di un’allergia verso questo metallo, nel 1975 un furto in casa mette la famiglia sul lastrico.

Ed è per necessità che Ofelia riinizia a lavorare (aveva insegnato a Pallagorio e a Marcedusa, un piccolo paese del catanzarese), come applicata di segreteria, in una scuola ai confini dell’Appio Latino Metronio, il gigantesco quartiere dove abita; a volte ci va a piedi, a volte viene accompagnata, spesso usa gli autobus. Ofelia si stanca, soffre lo stare rinchiusa tra quattro mura. L’aborto forse non è stato trattato in modo adeguato.

 

D’improvviso tutto si fa più difficile. Il colpo arriva, stringe la morsa della consapevolezza, il dolore si mescola ad una sempre più matura coscienza politica.

Ofelia soffre per il suo Sud (ancora inedita è una sua inchiesta sull’emigrazione)

 

Padre, benedicimi.

Cancella dal mio cuore

l’odio per i miei simili

per coloro che nulla hanno fatto

alla mia terra e dopo

aiutami a seminare.

Non sarà facile: i rovi hanno

soverchiato le colline

le case mostrano bocche gialle

di ginestre.

 

Ofelia soffre per il popolo arbëreshe, perché quelli durante i quali lei vive sono anni difficili, le minoranze linguistiche non vengono protette, e spesso, anche nel seno delle stesse famiglie, si ritiene più utile mettere da parte la lingua e la cultura, e far parlare i propri figli solo in litir, in italiano.

 

Nella monumentale Sinfonia di un popolo morente leggiamo

 

Dire dashiuria

che significa amore

e dire mëmë

che sta per madre

che senso ha ora che

nessuno intende più la mia lingua?

Come ultimi orgogliosi Cheyennes

gli arbresci resistono

Poiché le parole rimbalzano

a noi stessi e nessuno ha mostrato

rispetto per esse, esse si sono spente

così che un popolo morente

può solo dire come Ettore

in punto di morte des

che sta per la parola muoio.

… le care usanze, i merletti

nel bellissimo bianco inamidato

si sono persi nel cammino

dell’emigrazione.

Non so più dire nella mia lingua

la parola soffro e dirla così

non mi è nemmeno di appagamento

posso però fare intendere

alla mia gente

come altri hanno fatto con me,

che se vogliamo, qualcosa forse

resterà di noi, del nostro cuore

dell’antico mito di un tempo.

 

 

Il popolo arbëreshe è il popolo di Skanderbeg, un popolo tenace e coraggioso, che ha mantenuto per secoli i suoi riti ortodossi (ancora oggi presenti in alcune comunità calabresi) anche se ha dovuto sacrificarsi e accettare il gjaku shprishur, che cioè il proprio sangue si spargesse per il mondo.

 

C’è anche un certo lirismo nella poesia di Ofelia, ma mai retorico o stucchevole e impregnato di erotismo. L’amore è una forza vitale insita nella vita e non si può che abbandonarsi ad esso

 

Avrei dovuto baciarli

tutti

gli uomini che ho sentito.

-il soldato di terza classe

con gli occhi smarriti

d’amore

nella divisa

dell’indifeso;

-il cacciatore

alla posta attento

mentre la lepre

si faceva d’argento

nella luna della sua morte.

Chi vieta agli uomini

di possedersi

come le rondini in volo?

 

Insomma, siamo davanti ad una poetessa multiforme, dalla personalità piena di sfaccettature. Ciò che sorprende è che l’inquietudine di Ofelia è un’inquietudine tutta contemporanea, che somiglia molto alla nostra. Sarebbe bello poter vedere tornare alle stampe l’opera di questa poetessa che ha ancora tanto, ma tanto da dire.

 

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