Deserti luoghi - Nuova collana di poesia
Foto di Elio Scarciglia

Deserti luoghi - Nuova collana di poesia

diGiovanni Ibello

Anche se può sembrare singolare, questa nuova collana di poesia nasce in primis dal legame che chi vi scrive ha con la traduzione poetica. Qualcuno sostiene che il traduttore si limita a "prestare la lingua al poeta". È difficile essere d'accordo. È più opportuno invece, dire che chi traduce non si limita a traghettare i vocaboli da un idioma all'altro. Certo, si può ragionare in senso ampio sull'espressione "prestare la lingua". Ogni lingua ha le sue geometrie, i suoi arcani, un proprio suono (e ogni poeta che sia poeta ha la sua lingua) che va sedotto. Bisogna "prendere le misure", entrare nel demone del testo. E questo prescinde dall'idioma. Forse si parte sempre dall'invisibile, perdonerete l'insopportabile retorica di questo concetto. Ha ragione Marina Cvetaeva quando afferma che l'azione poietica è assai vicina al concetto di traduzione. In altre parole, scrivere poesia è sempre l'atto del rendere dicibile: "Scrivere versi è trascrivere. Per questo non capisco quando si parla di poeti francesi o russi, ecc. Un poeta può scrivere in francese, ma può non essere un poeta francese. È ridicolo. Io non sono un poeta russo, e mi stupisco sempre quando così mi considerano e mi definiscono. Si diventa poeti (se mai lo si può diventare, se non lo si è già da sempre!) proprio per non essere francesi, russi, ecc., per essere – tutto. (…) La nazionalità è separatezza e chiusura. Orfeo fa esplodere ogni nazionalità, oppure la dilata a tal punto che tutti (vissuti e viventi) vi sono inclusi (Marina Cvetaeva, Deserti luoghi, Lettera a Rainer Maria Rilke, 6 luglio 1926). La collana di poesia “Deserti luoghi” è dunque - come avrete intuito - in prima istanza, un chiaro omaggio a Marina Cvetaeva. Cerchiamo dunque un poeta che sia un sacerdote discreto e devoto, un poeta che fiuti prima di tutto il segno, che parta dal segno della cosa reale per trasfigurare tutte le leggi del mondo; la civiltà, “l’atto di prepotenza umana sulla natura” (per dirla con Ungaretti). Alla luce di questo dire selvatico, annunciato peraltro dai maestri, non è facile (ma ci proviamo!) individuare un poeta che sia, come sosteneva Rilke, “l’ape dell’invisibile”, l’insetto logorato dal suo stesso ronzio. Cerchiamo un verso in cui possa regnare il senso dell’imminenza, qualcosa che può gettarci da un momento all’altro nella rivelazione o nel dramma. Un luogo (o forse un nonluogo?) dove pensiero e discorso siano, proprio in virtù di questo proposito, l’uno il presupposto indefettibile dell’altro.  Il poeta, ci ricorda René Char, si misura dal numero di pagine insignificanti che non scrive. Ecco il manifesto programmatico della nostra collana: sapere che, come sosteneva peraltro Leonardo Sinisgalli, in poesia le proporzioni del salvabile sono minime. Sapere che la poesia esige la nostra severità.




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