In certi frangenti
Alberto Cini, Vela - per gentile concessione della galleria Sgallari Arte - Bologna

In certi frangenti

diAldo Viano

I film no, non riesce più a seguirli. Troppo veloci, troppo complicati! Non parliamo poi delle serie TV: bisogna rimettere insieme chi è chi e che cosa ha fatto nell’ultima puntata.

Una tortura immeritata. I sogni sono diversi. Non è obbligatorio ricordarseli e inoltre i salti temporali appaiono assolutamente normali. Da giovane, l’uomo ha collezionato più di duecentocinquanta numeri di Urania (quando il prezzo stampato sul retro della copertina era ancora in lire e ogni settimana c’era una nuova uscita) quindi se ne intende, nella sua immaginazione, di discontinuità spaziotemporali.


Nel suo viaggio da addormentato l’uomo è seduto in una specie d’anfiteatro. Forse c’è una conferenza. Comunque c’è qualcuno che parla, anche se non ha importanza, in quella circostanza, che cosa dica. E, in genere, ne ha ciò che si dice? È attorniato di gente. Sembrano amici. Quanto meno amichevoli. L’uomo non deve diffidare, né guardarsi alle spalle. Come invece è normale nella vita: che fatica sempre anticipare trame, intercettare avversari, parare colpi elementari o raggiri fatali. Prevalentemente umani. Così si suppone che sia e l’esperienza in genere corrobora, mentre il sognare inganna e seduce con la mitezza della tortora. Uccello monogamo come il novantadue per cento dei volatili.

Il sogno mendace e fedifrago alletta con scenari fascinosi e poi cambia le carte in tavola come un cambiavalute che ti fa fesso con la commissione.


Di colpo l’arena è vuota. Non se lo aspettava, l’uomo. Adesso si sente menomato.

L’onirica visione è venuta meno alla sua conviviale promessa d’umanità. Com’è normale nella vita, quando il corteo degli amici, con cui si sono piante lacrime di comunione, scompare di colpo, senza ragione. Apparente o almeno convincente. Ma il distacco dei sodali, presunti fedeli come gli affetti colombiformi, si diluisce nella scommessa degli anni, si spoglia nella costanza delle utili affinità e delle dimenticanze necessarie. È un processo lento. Insomma, il fatale invecchiamento che per alcuni è castigo. Per l’uomo è disvelamento.

Nel sogno, invece, tutto cambia con la fulmineità d’un colpo di fucile. Però senza violenza e senza volontà di distruzione. Almeno quello…


Un altro salto. L’uomo scopre un paesaggio vuoto, fierezza di case inabitate, abbandonate. Assurdità che appare normale, nella vita reale, soltanto nei deserti o sulle pietraie alpine dove non s’incontra neanche una marmotta. L’uomo non ha mai visto né gli uni né le altre e l’assembrarsi d’assenze che lo spinge, lesto, da un portone all’altro, da un vicolo ombroso a una piazza severa nel suo cemento, lo accoglie senza passione. Senza spavento.


Com’è strano sognare dove a un tratto si è gioia bambina e subito dopo vanto pronto a declinare. Non ci sono più alleati, solo intermittenze affabili, guide che non sanno guidare, parlatori buoni a cianciare a teatro o in ricordi che sanno di rimpianto. Come le serie TV in cui si perde il filo degli incidenti. Accidenti!


L’uomo sale. Sale perfidie di scalini, imbocca porticati ambigui, cerca, si perde. Come in un film in cui l’inizio sorprendente imbroglia poi lo spettatore dentro una trama deludente. Ci fossero due tortore, almeno, a tubare simbolici amori. C’è invece un cane sdraiato all’ombra. Dorme ignaro di linguaggi umani e alati, ma accoglie la carezza dell’uomo come un bene oceanico, confidenza che non distingue né classifica.


Una pausa prima di salire ancora, dimenticando folle, case, pennuti e cani. Progredisce fino a incontrare un tizio, forse un guardiano, che se ne sta seduto con la barba lunga di tre giorni, nera come il sospetto. Circospetto, l’uomo gli chiede “C’è uno sbocco a questa via? Un’uscita? Un punto di ristoro?”

La sentinella barbuta non si scompone, risponde in una lingua sconosciuta.

Com’è strano sognare: anche in un idioma non familiare l’uomo capisce “Sì, là in cima. Definitivo.”


Allora sale ancora interrogando ogni gradino, scrutando ogni tombino, abisso di passato. È quasi arrivato. Si fruga la tasca di dietro. Ha perso il portafoglio.

Merda!

Passi per la cartolina plastificata che certifica la nascita avvenuta, la taglia, la professione d’appartenenza, il luogo di residenza… Soprattutto il nome e il cognome. Ne fanno a meno, senza amareggiarsi i pennuti amorosi, il cane, forse anche il guardiano di direzioni oltremondane.

Ma i soldi no, quelli possono ancora servire, in certi frangenti, quando s’è senza soccorso.


Bizzarro il sogno che senza rimorso ti fa baluginare un’idea metafisica e poi ti scaraventa nella banale contingenza. Nei salti temporali, si sa, non c’è mai coerenza.


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