Teatro della memoria - seconda parte
Elio Scarciglia, astratto 1

Teatro della memoria - seconda parte

diOnofrio Arpino

La grotta aveva più ambienti ospitali: le stanze da letto e il soggiorno-cucina. Sul letto della stanza di Yasmeen era seduta una bambola con trine e merletti. Vi troneggiava con l’aria della padrona di casa, secondo un’abitudine del Novecento che serviva a dare un tocco di bellezza al povero arredo delle case. Rappresentava l’eredità affettiva dei suoi antenati. Un pannello elettronico assicurava luce, aria pulita e safety. Nell’ambiente centrale che fungeva da soggiorno, la volta a cupola riportava ancora pezzi di affreschi bizantini; si vedeva chiaramente una parte malridotta del Peccato Originale. Guardandolo, Basilio si chiese cosa ne sarebbe della storia dell’uomo se Dio avesse perso la memoria.

“Gli affreschi erano la Bibbia degli analfabeti cristiani dell’VIII secolo” spiegò Yasmeen. “Quando i monaci bizantini fuggirono dalla lotta iconoclasta, in queste chiese rupestri celebravano la loro liturgia. Io occupo l’aula della consacrazione dell’ostia, lei starà nel presbiterio per i fedeli. Dal presbiterio non si doveva vedere il mistero dell’incarnazione nell’ostia ma l’acustica delle cupole diffondeva bene la cerimonia dell’officiante. I tesori delle chiese rupestri sono stati distrutti per annullare il loro fascino spirituale.”

Restò per un po’ sull’idea che Yasmeen avesse nominato presbiterio e aula dell’ostia come allegoria per dire che non vedere il mistero dell’incarnazione era simile a non vedere il mistero del progetto di sabotaggio. Scacciò il pensiero che potesse avere un significato sessuale.

Nella stanza che era stata di Yukiko, su un telaio, c’era la seta indicata al momento della cattura. I segni grafici disegnati sopra somigliavano a trasformazioni fisiologiche, forse umane. Incomprensibili, comunque. Lei non aggiunse parola; lui non chiese niente, convinto che prima o poi avrebbe capito.  

In un angolo del soggiorno, vicino una bocca di aerazione, pendevano serti di pomodori e di aglio, secondo le usanze delle masserie. Yasmeen accese il monitor e avviò un video. Una donna anziana dai lineamenti diafani, e la treccia di capelli avvolta in cima alla testa, la chiamò per nome e la guidò nel programma della cariosside.

Come una vestale, lei seguì alla lettera il processo che veniva descritto: prese una massa bianca dal refrigeratore, la mischiò con acqua e miele e ottenne una amalgama che lasciò a riposare in un contenitore metallico, al caldo. Poi spiegò: “La mia antenata m’insegna come si fa il pane e altre cose necessarie.”  

Ciò che Basilio vide dopo alcune ore faceva parte delle attività della gente vissuta molte generazioni prima. Come tanti, lui non conosceva i processi di produzione degli alimenti, comprava dal supermercato e non sapeva nulla delle tradizioni, rimaste solo a datare il passato. Mentre l’antenata riprendeva a parlare, Yasmeen prese l’amalgama, diventata il doppio in volume, e la stese delicatamente su un piano, lavorandola fino a ottenere per estremità due mezze lune e al centro la forma che ricordava il berretto della scomparsa Arma dei Carabinieri.  Dopo la cottura nel forno, il profumo del pane inondò la grotta e vi rimase fino a sera. Il saluto che alla fine del video l’antenata fece a Yasmeen lo intenerì: mimò il gesto di abbracciarla, scoprendo involontariamente il numero sul braccio. Era una sopravvissuta ai campi di sterminio del XX secolo.

Subito dopo, ne avviò un altro che spiegava come ottenere cibo dalla natura. Uscirono a cercare l’asfodelo giallo, una pianta spontanea che lui non aveva mai sentito nominare, convinto che l’asfodelo fosse solo quello che nell’antica Grecia era associato all’immagine dell’oltretomba.

“Prima dell'arrivo del gas liquefatto in bombole,” disse Yasmeen, “i fusti d’asfodelo venivano raccolti secchi per essere impiegati per accendere la legna nel focolare. Perdiamo in maniera naturale tante conoscenze, figurarsi a estirparcele! Non c’è alcuna differenza tra le camere a gas e la cancellazione della memoria.”

Trovarono molte piante di asfodelo giallo nella vegetazione erbosa ma presero solo la parte terminale delle foglie, i cosiddetti tubercoli, friggendoli in pastella con farina, uova e un pizzico di formaggio. La sera Yasmeen preparò una cena antica: tubercoli fritti, formaggio podolico e vino aglianico del Vulture.

Dopo cena, lei prese una scatola, vi scrisse sopra lettera e numero e attraverso una botola ben nascosta lo guidò in una stanza enorme, ricavata sotto il pavimento. Di scatole ce n’erano tante, ordinate con lettera e numero e sistemate su gradinate a semicerchio ricavate nella roccia. Alla curiosità di Basilio rispose che stava attuando il Teatro della Memoria[1], un progetto del lontano Millecinquecento: dare visibilità ai ricordi, classificandoli come una catena di immagini corrispondenti all’esperienza visiva del teatro. Non disse altro ma si riferiva al proprio progetto.

Il tempo passava in passeggiate, raccolta di piante e funghi con cui potersi nutrire, osservazione di notti stellate e albe rosa che scolorivano i mari della luna. Tra i cibi a destare curiosità furono la focaccia alle erbe e il dolce di uva spina. Ogni giorno, in una specie di rito di abluzione, lei gli faceva strofinare le mani con un olio al profumo di timo serpillo. Ogni giorno, depositava un’altra scatola di cui non rivelava il contenuto. Ascoltavano musica di ogni genere. Spesso la voce di Yasmeen aggiungeva alle note dell’arpa la calda interpretazione del sentimento. Due musiche gli rimasero impresse: una antica canzone che lei cantava per sostenere la sua determinazione, la storia siamo noi[1]; l’altra, solo musica, descriveva un’epopea di tipo risorgimentale. Era proprio quest’ultima a mettergli ansia, come se annunciasse l’arrivo di qualcosa di antico e di ribelle che la potenza dell’era digitale non poteva soffocare.

Basilio si rendeva conto che la donna gli stava entrando nel sangue, che il desiderio di stare con lei poteva diventare desiderio di possesso. Entrambi si accorgevano che tra loro nasceva qualcosa ma non vi fu mai un cedimento che li gettasse l’uno nelle braccia dell’altra.

“Cosa pensa di me?” gli chiese una sera, dopo aver osservato una colonia di falchi grillai tornati numerosi nelle cavità della gravina. Erano seduti su cuscini di muschio, sotto le stelle talmente numerose da far dubitare di altre esistenze.

Cercò di indovinare il motivo della domanda. Riguardava il suo intento o era personale? Fu sincero: “Quanto di meglio potrei, una donna perfetta in una corporazione di feudi imperfetta, e quello che non dirò mai se non avrà voglia di sentirlo.”    

“Ho annotato le nostre vicinanze, gli sguardi… gli sfioramenti…”

“Mi hanno causato brividi” confessò.

“Crede che io non abbia slanci affettivi? Ho deciso della mia vita e non posso frapporre ostacoli. Se mi arrendo all’amore devo arrendermi a tutto il resto.”

Si appoggiarono l’uno all’altra, paghi della sincerità, scarabocchi neri di una sceneggiatura in cui le stelle lanciavano loro addosso filamenti argentei.  

Prima che il messaggio criptato di una certa Marta avvisasse che la data decisa dal Consiglio di Oblivium si stava avvicinando, Basilio riuscì a sapere solo l’idea del piano: mandare in tilt il cervellone agendo sul sistema di raffreddamento. Intuiva che c’era dell’altro ma sentiva reticenza.   

La notte precedente il giorno stabilito, erano passati circa tre mesi, Yasmeen lo chiamò a dormire con lei. Tempo dopo, lui descrisse quella notte come la più dolce di tutta la sua vita, omettendo la sensazione di essere stato lo strumento per dimenticare il pericolo che dovevano correre.



[1] TGiulio Camillo, detto Delminio (1480- 1544), Teatro della Memoria.

[2] Francesco De Gregori, La storia siamo noi (1985).


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