Il verso come ricerca di senso ‒ su Sin Tesi di Jacopo Santoro
Elio Scarciglia, particolari, Villa di Chiavenna

Il verso come ricerca di senso ‒ su Sin Tesi di Jacopo Santoro

diRoberto Masi

Cosa si cela sotto la superficie delle cose? Ma soprattutto: è così necessario penetrarla, oppure l’indagine dovrebbe limitarsi all’ambiente in cui tutto si realizza? Da tali interrogativi sembra prendere spunto l’opera d’esordio di Jacopo Santoro (Ascoli Piceno, 1995), autore di questo notevole Sin Tesi (Terra d’ulivi edizioni), opera spinta a esplorare non tanto la profondità bensì le increspature della superficie, i segni lasciati dl pensiero aurorale che, altresì, dalla profondità emerge nel verso.

Tutto è limite, impedimento materiale e mentale che il poeta osserva con l’umiltà dell’eremita il quale ha scelto la via della contemplazione. Così, complice una musicalità che ci coinvolge come un sibilo ancestrale, il visibile diviene l’ambiente assoggettato a un divenire trattenuto dal tegumento (concetto assai caro all’autore), il quale lascia trapelare qua e là le tracce che è necessario scovare per ristabilire la propria posizione nel mondo e allo stesso tempo la posizione del mondo dentro di noi. Per farlo ‒ per immettersi nel reale (o costruirlo) attraverso la propria poetica ‒ Jacopo Santoro deve farsi viandante: un pellegrino della parola che arranca tra tecnica e natura con la rassegnazione dell’osservatore disincantato il quale vive e riconosce ciò che lo contiene mentre tenta, attraverso il linguaggio, di germogliare sé stesso per scrutare questo tutto da un punto di vista universale, meno nichilista; meno esatto di ogni paradigma accettato.


I

qualcosa esplode

nelle lontananze attenuate

dal limite della notte

è il segno della casa

e le sue fondamenta

raggiungono

i cieli sporcati

dai pilastri fumanti

di questi roghi profani

in questi occhi

da cui il mondo si guarda

adolescente

posa il velo

la polvere di una senescenza

anticipata

e il sogno della cosa

svanisce

dietro schermi trasparenti

nel riflesso intoccabile

di uno specchio senza

aldilà


Errare attraverso il linguaggio come forma di affrancamento dall’erosione del pensiero (e del suolo antropizzato che tende a fagocitare lo spirito), fa del poeta il legante tra la parte in armonia dell’uomo e quella automatizzata del progresso. Un linguaggio che s’innalza oltre la materia, trattenendola però come fosse l’involucro che limita l’umanità dal suo sfuggire alla creazione: un seme, una cella, una lastra di cemento… di catrame. Niente può essere ignorato; ogni influenza contribuisce alla costruzione della realtà e al poeta non resta nient’altro da fare che mantenersi consapevole per sfuggire al processo di entificazione. Eppure, laddove insiste l’ostacolo, resiste la natura che attraverso il lento progredire avanza in un perpetuo tentativo di affermazione o, per meglio dire, di ricostruzione. Il linguaggio è quindi il tentativo di un ritorno alla genesi, il bisogno di originare ancora una volta il sistema opponendosi ai soprusi dell’esattezza che sottomette l’uomo alla sua sintesi.

Siamo dunque di fronte a una poesia di senso, evocativa; una poesia che celebra il Novecento sebbene mostri senza inutili sperimentalismi la necessaria modernità. Un linguaggio preciso e dolce che restituisce la speranza di una visione più umana, meno limitata da quegli effimeri bisogni che ci condannano alle stanche abitudini del calcolo.


XIII

si sono murati i corpi

e la carne

si nutre di cemento armato

un rampicante

sale i muri caduti

gli addomi abbandonati

a cieli soffittali

e stelle a risparmio energetico

fuori gorgoglia ancora il torrente:

travolgerà di nuovo

l’inizio

e nel calcare rilegherà

ogni reliquia stanca

al suo corso lasciata


La vera poesia ‒ arte senza tempo che non esplicita ma suggerisce ‒ come l’essere emerge assentandosi per dire l’indicibile, qualcosa che non può essere esplicitato bensì, necessariamente, sentito come parte istintiva del sé. In questo percorso catartico che Jacopo Santoro intraprende (al limite del poema), la natura ritorna in continuazione per frantumare i soprusi antropici in quali pongono soltanto domande causanti. Una lotta visionaria tra i disastri perpetrati dall’uomo e il suo esserne vittima sacrificale, laddove il poeta ritrova il senso nei detriti inglobati dalla vegetazione, scivolati nei fiumi o vulcanizzati alle proprie ossa come fusioni, come neoformazioni aberranti di un’era tragica. Ed è nel percorso stesso che l’arte viene in soccorso all’uomo tecnicamente concepito per ricondurlo all’origine del tutto: come un rampicante che s’impossessa di un muro franato il linguaggio poetico pervade l’uomo per cancellare l’esattezza funzionale della parola, mentre l’acqua lava via lo sporco di una coscienza trattenuta dalle briglie dell’epoca in corso. 

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