"L'Agnese va a morire"
Ivor Prickett, Peda Radic, originario di Knin, nella Croazia meridionale, ma è stato trasferito durante l’Operazione Tempesta nel 1995. Peda vive da solo presso il centro collettivo di Rtanj. 2007

"L'Agnese va a morire"

diTeresa Mariniello

“L’Agnese va a morire” è un romanzo scritto da Renata Viganò nel 1949, che le valse il Premio Viareggio nello stesso anno. 

Ambientato nelle valli di Comacchio durante la seconda guerra mondiale, dal settembre del 1943 alla primavera del 1945, sembra narrare le vicende di coloro, uomini e donne, che fecero resistenza all’invasione nazista. 

In realtà, procedendo nella lettura del romanzo, ci si rende conto che il vero racconto riguarda la trasformazione di Agnese, del suo percorso interiore che la porta a passare da un ruolo di contadina a quello di punto di riferimento per i partigiani.

E la Romagna, descritta così viva, “L’Agnese conosceva quel rumore della valle di notte: un ronzare sordo, un grido isolato; il soffiare del vento nelle canne che fanno come uno strepito di passi, il propagarsi di un respiro caldo…”, le rappresaglie dei fascisti, la guerra stessa appaiono sempre più di contorno a una storia che si dipana intorno alla presenza di lei, precisa, certa di ciò che è chiamata a compiere. 

In questo doppio registro di lettura leggo la differenza con altri romanzi contemporanei sulla Resistenza, come se la scrittura femminile, anche quando si occupa di fatti collettivi e politici, non potesse prescindere da quelli personali e introspettivi.

Ma chi è Agnese? Quali le emozioni, le considerazioni che la conducono a compiere azioni che la porteranno a morire, come annunciato dal bellissimo titolo?

Lei è una lavandaia, vive col marito Palita e si occupa di lui, come una madre farebbe col proprio bambino, perché Palita è reso debole da una malattia e l’unica cosa che può fare fisicamente è quella di intrecciare cesti di vimini; si occupa però di politica, e tra un bicchiere e l’altro mentre si gioca a carte nella sua casa, parla e decide coi compagni partigiani.

Agnese non solo non partecipa a questi discorsi ma ignora anche l’attività clandestina del marito, fino a quando Palita viene preso dai nazisti, probabilmente a seguito di una spiata da parte dei vicini di casa che si sono accorti dell’ospitalità da loro data a un disertore italiano.

Mentre lui viene caricato sul camion Agnese resta ferma, sull’aia di casa, sola, con la coscienza che non lo vedrà mai più.

Non lo trova infatti il giorno dopo né alla caserma e neppure nella stazione dove si è recata con la sua bicicletta portando il cibo per lui in una borsa. 

Siamo nelle prime pagine del romanzo e l’autrice ci immette subito nella storia dei personaggi e del contesto politico, inserendo i due elementi che accompagneranno la protagonista nelle sue azioni future.

Con la bicicletta raggiungerà i vari luoghi di consegna di notizie, di vettovaglie, di armi, lei diventata staffetta partigiana, e col cibo diventerà la madre di tutti quegli uomini che fanno parte del movimento della Resistenza. Diventerà Mamma Agnese.

In questo attraversare i campi delle Valli di Comacchio per raggiungere i piccoli paesi e consegnare il materiale clandestino, Agnese legge di persona i soprusi, la sofferenza, la morte della gente. In lei si fa strada un sentimento di odio per gli invasori e il desiderio di essere presente alla lotta clandestina. 

Con umiltà risponde, ricevendo il primo incarico, al comandante: “Se sarò buona.” 

E lo ripete anche quando porterà l’esplosivo per far saltare un ponte, e ancora successivamente.

Fin quando, e siamo ancora nella parte iniziale del romanzo, Agnese compie un’azione in “autonomia”.

Una sera in cui ha luogo una festa nella casa dei vicini, quelli che hanno probabilmente tradito Palita, una sera in cui le due figlie della coppia amoreggiano coi tedeschi e la madre insegue con una scopa la gatta che era stata di Palita, quella sera avviene una svolta. 

Kurt, un soldato tedesco, spara alla gatta uccidendola.

Agnese la seppellisce in silenzio nel buio del campo adiacente, si avvicina poi al soldato ubriaco che dorme ora su di una sedia e, sfilandogli il fucile, gli spacca la testa.

Non è solo un atto dettato dalla rabbia e dal dolore per la perdita di qualcuno che l’avvicinava al marito, ma anche il prendere una posizione più netta e precisa. 

Agnese scappa subito, con niente altro che il vestito. 

Sa che dovrà entrare nella clandestinità e senza rimpianti guarda in lontananza il fuoco che le brucia la casa, ascolta e corre avanti.

“Poi si levarono urli di donne, disperati, terribili, inutili. E a un tratto s’accese una fiamma, prima azzurra, bassa, poi rossa, più alta, avvolta nel fumo nero, contro il cielo schiarito. E ancora le voci tedesche, e gli urli delle donne. La casa bruciava.” 

Gli urli delle donne sono definiti inutili di fronte alla violenza, accompagnano i colori delle fiamme che si levano e che si fermeranno con esse.

Agnese sa invece dove andare, sa dove trovare rifugio e risposte ancora più adeguate a un odio che non è più solo alimentato da questioni personali ma che è diventato più ampio. Un sentimento che avrebbe potuto corrompere e guastare l’anima della protagonista se lei non ne avesse fatto azione politica e civile.

Non è più solo un passaggio di testimone, un’eredità presa dal marito, diventa la propria scelta di vita, dura e pericolosa ma inevitabile.

“Quel che c’è da fare si fa.” Queste sono le parole di Agnese di fronte a giorni e azioni che diventano sempre più complesse e piene di privazioni, e che la vedono diventare l’organizzatrice delle staffette; con la mente lucida e presente ma con un cuore che le pesa nel petto e che sembra andare per conto proprio.

La bellezza del personaggio sta nel conservare quel nocciolo di amorevolezza e cura verso gli altri coniugandolo a un pensiero lucido e reso accorto dalle circostanze.

Agnese non si cura di sé stessa, adesso è sola e senza la “famiglia” dei partigiani non saprebbe dove andare, non si cura della fatica e delle tante notti insonni ad aspettare qualcuno che forse tornerà col volto sfregiato o portato dai compagni, morto.

Neanche si cura del mancato intervento degli alleati e della loro semina di bombe su obiettivi che non sono strategici e che tanta rabbia e delusione producono nei compagni. 

Agnese è intenta a un fare continuo e prezioso e il cerchio si chiude nel punto in cui la linea è stata tracciata. 

Agnese muore nella clandestinità scelta e di lei non resta che “un mucchio di stracci sulla neve.”


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