La grammatica nascosta di Floriana
Elio Scarciglia, Venezia 2022, San Marco

La grammatica nascosta di Floriana

diRita Felerico

LA VERTIGENE DEL TAGLIO di Floriana Coppola

In queste pagine, la grammatica di Floriana si apre, inciampa, sussulta, si spezza , insegue sillabe, si arrampica fra le righe delle pagine per farsi per/sona, per dare corpo e voce ai tanti pensieri e sentimenti che  scuotono l’autrice fin dentro al suo intimo sé : “folle questo tamburo che (mi ) rapina” scrive . È una grammatica in cerca di forma, perché le parole rivelino le verità. Ma esiste un modo per raccontare il reale? si chiede ?  Sì, mettere mano ad una rete che intreccia spazio e tempo in un percorso di atmosfere che si creano e distruggono all’infinito. Perché Siamo ombra, suggerisce  Floriana, ombra abitata dal  desiderio e il desiderio vuole ali fragili per volare e ripidi pendii per camminare,  non cerca approdi.  E non a caso è il desiderio  ( titolo scritto in inglese ) ad  aprire questo caos di poesia e prosa – aggiungerei poetica -,  a segnare il ritmo, il tempo, lo spazio dove va ad abitare  La vertigine del taglio. Sono storie brevi dice Floriana, altre sarciture per cercare di ‘apparare’ le ferite, i dolori, le violenze. Un ‘lavorio’ tipicamente femminile, prima che tutto si disintegri fra le mani. Cercare di salvare il salvabile.

Floriana le attraversa le ferite, le osserva, con lunghi sguardi senza soluzione di continuità e aspetta qualcuno/qualcosa che smuova lo stato dei fatti, come quelli che vede in Bambini, quando li definisce proprio con il titolo del suo testo: la vertigine del taglio. “La conosco” afferma. O In veranda dove il silenzio è l’unico dialogo fra un femminile e un maschile che per abitudine reiterano comportamenti e parole. Quale l’identità che si appresta a cercare Floriana? E parla con le parole di  Fernando Pessoa tutto questo mio mondo di persone a se stesse estranee, proietta, come una folla diversa ma compatta, un’unica ombra. Uno, nessuno ,centomila? Chi siamo? E allora si racconta, ci  racconta ponendosi dal punto di vista dell’ospite segreto racchiuso in noi e scarnifica senza condiscendenza quell’essere donna che è in lei. Incontra le altre, che non sono lei, delle quali sente empaticamente la vita: Anche io ho più nomi e molte chiavi. La mia borsa è un intero condominio che viaggia con me. E racconta la guerra fra un marito e una moglie due mondi estranei fra loro costretti a vivere in sessanta metri quadrati; o della violenza psicologica, sessuale ed economica ( come in Money ) subita e impietrita. E descrive in modo soft i momenti dei rapporti carnali: a pelle si aprì, i pori e ogni fessura aperti per essere colmati e presi come in Dessert  quando scrive: un morso, un ringhio, un sospetto / sei il mio cibo perfetto. Una realtà complessa che si deve raccontare, perché le parole possono essere un carcere invece di servire ad incarnare e rendere palpabile ogni dolore, ogni gioia, ogni emozione. Dobbiamo così cercare una linea di fuga perché la memoria cancella, trasforma, seleziona, rimuove, ecco perché diviene necessario raccontare la sotterranea guerra dei sessi e quella che si mostra fra gli uomini.

Come agire per sentirsi vivi? Abbiamo bisogno di metafore, di immaginazione per vedere e cercare di cambiare il reale,  racchiudere in un solo sguardo il passato – anche quello che non abbiamo vissuto e che è in noi- e ciò che è  e potrebbe essere. Lo scrive bene Floriana in Spoon River, “La vita è altrove.  Quella ragazza incinta mi ha sorriso. Nasconde la pancia dentro una maglietta troppo larga sulle ossa” . E dialoga, con i morti di Spoon River, con Artemisia, con il pensiero di tante donne, una fra tutte Lenor, radicato simbolo di donna/eroina, parte della storia della sua Napoli. E dialoga anche con il pensiero che sopravvive nella parte malata / oscura di noi e di tanta donne  o quello incastonato nella parte più antica e nascosta, nell’amigdala (mi vuoi rendere una cosa, ma prima mi devi conquistare…non sei come me e questo mi eccita ) parla in questo modo l’istinto di femmina. Spesso c’è un richiamo animale, all’animalesco dal quale non siamo estranei, siamo animali sociali ci ricorda. E ci si ritrova come animali in una foresta intricata, spiega in Dangerous, ci si annusa come animali, le persone sono animali strani, bipedi che hanno la testa dritta e parlano e come in un gioco di specchi si ingaggiano le lotte.

Le metafore della Poesia servono così a lenire il dolore, sono il filo delle sarciture, cucite insieme con nodi stretti. Come nel sogno di Monteverità dove Floriana custodisce in tasca una manciata di piccoli semi per salvare i bambini e i vecchi, le creature piccine e gli innocenti. E in Luna piena – per me una delle più belle poesie, nella quale ritrovo similitudini di leopardiana memoria (tra l’altro Floriana riscrive l'Infinito rendendo il pensiero del giovane recanatese suo e dei nostri giorni, una operazione di modernizzazione affatto banale) - in Luna piena dicevo si racchiude parte della ‘sapiens’ della nostra autrice, richiama i topoi del suo dire, i simboli della sua percezione ed emozionalità: il biscotto di grano saraceno – la madeleine di Proust -, il cielo come giacca nera - mi ricorda il cappello nero in un famoso quadro di Magritte  - un forcipe d’acciaio - rimando a dolorose pratiche ginecologiche -  un’asola di ferro laminato – i morti sul lavoro -  gli umani strani come un coro di squieti animali -come non pensare alla Fattoria degli animali di George Orwell -.

I rimedi/ sarciture – scritti come sottotitoli- sono racchiusi in una serie di brani  - non a caso dico brani -  che si susseguono con ritmo sempre più incessante per andare verso la fine; bisognerebbe leggerli tutti d’un fiato: Omissis,  Fai finta che, Non so cosa dirti, Blackout,Venice per andare poi a ritrovarsi e riconoscersi nella meraviglia dei poeti o nella anestesia sociale garantita o in un cane randagio o nel disperato tentativo di rimanere fuoco sempre acceso. Ibiscus ce lo descrive molto chiaramente.

Il rapporto con il corpo è un altro tratto fondamentale e in alcune pagine sembra unire il senso del tempo che passa al disfarsi delle forme e di una bellezza di cui forse non siamo mai stati padroni perché probabilmente l’abbiamo troppo allontanata dal sesso. Viviamo pornografia del non sense e impazziamo nell’incomprensione della voce del desiderio che invece è sempre presente, ad ogni età: ho sulla fronte una ruga di ragazza un desiderio che mi fa sentire pazza.  E in Chat spiega con razionale partecipazione la possibile  libertà dell’amore vissuto in digitale. Tutto questo può accadere  in un tempo in cui , come scrive in Bar, ci si ritrova poco umani nei sentimenti e negli istinti, perché la vita più che gioia dona dolori, è purtroppo una lista di atti di separazione. In Addio il tono nostalgico di amori desiderati e mai compiuti lascia il posto alle fantasie di amori carnali, come accade nei quadri di Domenico Gnoli, dove gli oggetti più ‘normali’ mutano in oggetti sensuali, sono scarpe occhiali, borse.

La grammatica, la ricerca di una sua poetica – come dicevo all’inizio – lo ricorda a scadenza Floriana: racconto a me stessa la mia storia scrive per esempio a pag. 89, prima di un nuovo percorso di brani, scrivo del padre e della madre….del passato per sostenere il presente…senza alcun pudore ribadisce a pag.95 perché io sono io sono io sono se scrivo, afferma in A che serve ?  

Di contro, La noia è abbandono di senso; Come un’alice in una pozzanghera di mare; Ogni sguardo è un recinto di filo spinato; Siamo spesso dentro il sogno di un altro; Lui invecchiò storto frasi sulle quali mi sono soffermata così come nel riscontrare la  ricorrenza di  parole come intermittenza, ritmo.

In Vecchi, Malacqua, De profundis si evocano altri mondi / sentimenti, un meccanismo che ritrovo nei titoli scritti inglese o nella poesia dedicata a Vonnegut, un uso della lingua straniera che impone un ascolto diverso, più attento, un saper ascoltare a cui  siamo disabituati. Come disabituati siamo a porre attenzione al luogo, ai luoghi che abitiamo, alla nostra città che fa da sfondo, come una vertigine, al mondo di Floriana. In Giù Napoli  - dove ci sono parole in dialetto, come in  Ind o’ street, americanizzato-  ne parla, in tono fermo ma tenero, la città  raggiunta magari  con un C18, un bus che è un mondo, tanti mondi , una foresta in miniatura.  

Gli ultimi componimenti si leggono a ritmo incalzante, ci  inondano  come acqua di un torrente; non ritmo violento e distruttivo ma avvolgente, lo stesso che ritrovo nelle donne che mescolano la pasta nella pentola per non farla attaccare, per tenerla cotta al giusto punto, perché sia buona e saporita perché comunichi tutta la passione impiegata per cuocerla e l’amore che si vuole donare offrendola come pasto. Nomino Mediterraneo, dove si ricongiungono nella memoria le donne della storia familiare, che tanto assomigliano alle donne che hanno fatto la storia del nostro Paese, a quella delle nostre madri e nonne. 

         Una riflessione a parte merita l’attenzione che Floriana pone al  suono-( vedi pag.65 e pag. 76 ) e che ritorna  nell’ultimo componimento a pag. 124, Non resta che la voce . Il suono, la voce …penso ad una poeta iraniana Forugh Farrokhzad e al suo bellissimo libro E solo la voce che resta; lei è voce audace della ribellione femminile nel suo Paese mentre si consuma il golpe  fallito del 1953, mentre la poesia ufficiale imita in malo modo il romanticismo europeo. Fourugh  cerca  una identità poetica senza vivere  il suo esser donna come un limite; anzi il corpo diviene centrale e ribellandosi all’ipocrisia  e ai  giudizi morali, rivendica i suoi ‘diritti’ di donna e di poeta ( veniva definita la poetessa del peccato: le mie labbra ardono del canto d’amore / il mio seno brucia d’amore / la mia pelle si lacera di passione… ) scriveva.  Del resto la chiusura di Floriana con Autobiografia costruita- similmente in altre composizioni - come un pentagramma di improvvisazioni jazzistiche, ne è  prova: sono i gesti, le scelte improvvise che la guidano nel suo ribelle non inquadrarsi.

In questo, il suo fare poesia, il suo scrivere poesia e di poesia mi ricorda La Nouvelle vague, il movimento cinematografico francese nato nel 1957. “Nouvelle Vague”- termine coniato dal periodico “ L’Express ” - si riferiva al diffondersi in Francia di un movimento sorto dalle proteste giovanili contro la politica di colonizzazione algerina della Francia di quel periodo. I registi ribelli si associarono a quei giovani diffondendo nuove idee rispetto alle forme del linguaggio filmico.


Si passa all’interno della stessa pellicola dal colore al bianco e nero, si introducono riprese lunghe senza interruzioni, sono presenti nelle inquadrature e quindi nel montaggio finale rumori, occasionali presenze. Cambia insomma lo sguardo, il punto di osservazione, si gioca con il filo del racconto su piani paralleli, da una parte i fatti, ciò che accade dietro i fatti, dall’altra l’attenzione che lo spettatore pone per far coincidere i fatti con il suo sentire. I particolari di questo particolare sguardo sono immersi in una dimensione di spazio e di tempo che potremmo definire a-temporale e a-spaziale, anche se determinata e specifica. Leggere, immergermi nella lettura di Floriana, mi ha riportato alla memoria questa atmosfera. La poesia -come il cinema -  è fatta di spazio, di tempo e di metafore e Floriana l’ho sentita attraversare le dimensioni che danno corpo alle parole come regista di una nuova  nouvelle vague.


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