Mutazioni di Gianni Ruscio
Stefano Negri, India

Mutazioni di Gianni Ruscio

diFloriana Coppola

Fiotti di sangue - nel sangue c’è scritto tutto

 - inarrestabile bile rivolta al cielo - verde conchiglia –

sull’asfalto di Roma cuore sbranato dentro

 cuore calpestato una fiamma e un lamento

e poi nulla più di questi esseri che eravamo stati.

 

Se è possibile, in poco dire molto, compiendo un salto mortale nell’ignoto, così definirei la nuova silloge poetica di Gianni Ruscio Mutazioni edito da Terra di Ulivi. Un poema diviso in due parti, che fa riferimento al processo trasformativo che ogni creatura è destinata a compiere. Nascita, morte e rinascita come fasi alchemiche e spirituali che trasformano profondamente ogni operazione di sopravvivenza esistenziale, processi di mutazione che investono drammaticamente il corpo e l’anima, in un solo circolare gioco sofisticato e primordiale. Il corpo è l’oggetto che si tramuta, che cambia forma e sostanza e allude al martirio e al supplizio per nascere e morire, per rinascere sotto altra forma, per sdoppiarsi nel figlio, per accogliere l’altro in quanto madre. Tante sono le tracce comprese e nascoste di questa preziosa versificazione. Chi legge è preso da una vertigine interiore che destabilizza e incanta, per il contrasto perenne del corpo che si violenta e combatte, che lotta per la vita, che incide nel sangue la sua cifra esistenziale, la sua condanna e la sua redenzione.

 

Mortale indigesta e sottovalutata la grazia - lama - del coltello nella mano del macellaio. Prende pezzi di noi che poi lavora con una tecnica precisa e da manuale.

La madre e il figlio. La passione cristica e la Maddalena. La crocifissione e la grazia. Un codice simbolico continuo e ossessivo che viene enfatizzato in ogni testo da alcune parole, che si ripetono in modo compulsivo come il suono di un tamburo percosso da un ritmo musicale simile alla danza derviscia, ai riti sciamani di iniziazione. Sangue e macellazione, ferita e corpi squartati descritti in modo minuzioso riprendono la visionarietà allucinata dei rituali magici. Metafore spinte e ossessive, sonorità esasperate e carismatiche si legano a immagini arcaiche e archetipiche che toccano il supplizio dei martiri cristiani, il passaggio nel sangue del toro da parte del re bambino Mitra, il flusso sanguigno della nascita che lotta con la morte fino alla dolcezza del latte del seno materno. Tutto passa attraverso il corpo. Il corpo del cristo e di ogni povero cristo, maciullato e suppliziato, il corpo della donna, della grande Madre che rischia e offre la vita, nello strazio sanguinante delle carni. Gianni Ruscio non teme di affrontare in così breve spazio l’esperienza estrema e radicale della vita e della morte.  Guarda commosso, con estremo rigore e spietata lucidità, quanto sia martirio e contemporaneamente liberazione ogni trasformazione umana. Si paga sempre un prezzo altissimo per nascere ed evolversi.  Non è mai azione puramente intellettuale ma assoluta immersione nel corpo che diventa portale di significanza tra terra e cielo, tra umano e divino. 

 

Se dovessimo dar retta al vecchio adagio di Platone che “il bello è lo splendore del vero”, allora dovremmo inquadrare la poetica di Gianni Ruscio all’interno di una superiore sincrasi tripartita, una sorta di monstrum a tre teste composto di verità – corporeità – idealità: giacché il vero è la dimensione dell’idea platonica raggrumata nei sensi e nel corpo che si fa parola, il luogo preferenziale dove risiede, nietszcheanamente, la concrezione fisica del nulla, asse tematico che percorre ogni singolo componimento.” […]

Sonia Caporossi

Ripeto questa citazione di Caporossi per dare forza alle mie parole. Vero – corpo – idea.  La ricerca di una sintesi tra queste tre dimensioni può essere considerata la direzione poetica di Ruscio. La silloge diventa simile a una performance di arte contemporanea, colma di pulsioni sanguigne, di ritualità primitiva e carica irruenta. Arte dissacrante della parola, in questo caso, che vede il corpo come mezzo espressivo per esternare malattie esistenziali, in una cornice metropolitana degradata. Roma diventa lo sfondo di un’allegoria universale dove martirio antico, corruzione moderna e consumo sfrenato e nichilista si intrecciano pericolosamente.  

Anche noi saremo (messi a nudo davanti a un gancio e a una affettatrice davanti alla bilancia cristica di nostra Signora) quarti di corpo - incisi strappati disossati - fette di pancia girelli controfiletti filetti lombate costate fracoste interiora che non saranno mai a sufficienza libere di esser nutrimento per la scatola buia e vuota della nostra coscienza. Saranno le nostre viscere in eterna decomposizione sul quadro della pelle a farci sussultare.

Leggendo le belle pagine di Ruscio, arrivano alla mente tante immagini conservate nel nostro immaginario culturale e artistico: il simbolismo di Bosh, Gunter Brus, Otto Muhl, Rudolf Schwarzkogler e il discusso Hermann Nitsch, autore dell’Orgien-Mysterien Theater. Rivediamo Nitsch con il suo Teatro delle Orge e dei Misteri: crocifissioni, interiora di animali squartati, tanto sangue sulle persone, sulle pareti e sugli oggetti. Riti dionisiaci che durano interi giorni, che coinvolgono molte persone in atti sacrificali. Per Nitsch la violenza è giustificata dallo scopo puramente terapeutico e catartico. L’artista sostiene che ogni uomo ha una potenza violenta ed assassina che deve essere liberata, sfogata, per raggiungere la purezza. Per il poeta invece questa ricerca del legame sanguigno tra corpo e anima diventa percorso iniziatico per sentire la potenza del divino attraverso il trauma psicocorporeo più profondo. Sentire le radici primitive che ci appartengono, ascoltare le pulsazioni del sangue come un libro aperto che parla di noi, del noi più antico. Bisogna comprendere il legame stretto tra la vita e la morte attraverso il corpo che diventa veicolo mutante di catarsi mitologica e di angosciosa liberazione. Il poeta/sciamano compone con le parole un complesso rituale magico-religioso, dove il campo semantico delle parole sangue e macello è elemento simbolico irrinunciabile per la visione estatica. La parola viene impiegata allora come prassi esorcistica/terapeutica del sacrificio cruento, per sollevarsi da ogni tormento. La consapevolezza radicale di un avvelenamento nei tempi moderni, della corruzione dei legami e della realtà cittadina rende il poeta parte attiva di una catena trasmissiva tra il passato arcaico e il presente fluido e malato, per indicare la linea della rinascita e della resurrezione, passaggio da una condizione umana a uno stato di sostanziale diversità.

Lo spirito è lassù e ha l’odore dell’ombra. Qui sotto tutto è volgare caotico squallido ma è a immagine e somiglianza dell’essere umano. Io faccio definitivamente la cavia di me stesso.

Altro indizio fondativo è la citazione iniziale di Roberta Dapunt, poeta del sacro e della solitudine,

che segue la semplicità religiosa dei gesti arcaici, prendendo materiale e ispirazione dal deposito di simboli e orazioni della civiltà contadina. Lei dice:  

“Il poeta accorda parole. Ma non l’indicibile, poiché significherebbe non poter dire. Chi si esprime in versi invece, lo fa perché sente appunto la necessità di dire. Ancora prima di scrivere. Scrivo anche che la poesia è una necessità o non è credibile. Il compito del poeta è dire le cose come sono, quando sono vissute, quando diventano del cuore e della mente. Chi si esprime in versi lavora ad un prolungamento della propria vita, la poesia è una parte aggiunta, poiché non è solo testimone di sé stessa, ma di vita appunto. Dopodiché l’identità”. 

Mutazioni diventa quindi un’operazione ambiziosa, coerente con le precedenti opere poetiche di Gianni Ruscio ma presa da uno slancio coraggioso e sincero verso il vuoto, inteso come territorio inesplorato e misterico.

Afferma Andrej Tarkovskij: “Lo scopo dell’arte non consiste affatto, come talvolta ritengono gli artisti stessi, nell’instillare pensieri, nel contagiare con le idee, nel servire da esempio. La sua finalità consiste nel preparare l’uomo alla morte, nell’arare e nel rendere  la sua anima in modo che sia capace di rivolgersi al bene”. 

Ultimo riferimento culturale che vuole indicare una traccia da seguire è la citazione nella seconda parte di Jeff Buckley musicista precocemente scomparso divenuto famoso con un solo disco, Grace, destinato a rimanere uno dei capolavori degli anni '90. La parola grazia ritorna nella seconda sezione della silloge e vuole richiamare la condizione di sospensione esistenziale e di gratitudine che la grazia anticipa nella sua etimologia. Dalla orizzontalità materica della parola sangue si arriva alla verticalità spirituale della parola grazia. Grazia come leggerezza, gratuità e bellezza, come concessione straordinaria e perdono, come dono spirituale. Espansione del cuore muto. Tanti ancora sono i riferimenti simbolici di questo testo, una fioritura metaforica di grande impatto dove l’io autobiografico si incide nella percezione magmatica di un collettivo universale.  E la poesia, quando funziona, è assolutamente questo parlare a se stessi per giungere agli altri, generando una risonanza emotiva, affettiva e culturale di grandezza non immaginabile nemmeno da chi scrive. 

 

Io mi sbracciavo perché avrei voluto vedessi i lapilli della nostra corsa il sorriso dei nostri gigli. Eri tu corsa lapilli figli. Espansione del cuore muto.


 


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