Quarantacinque di Massimiliano Cicoria
Foto di Paola Casulli

Quarantacinque di Massimiliano Cicoria

diFloriana Coppola

     Di tutte le cose, mi dico, dovrei ricordare il nome degli alberi:

     lì incontrerò un altro Camus, anch’egli dondolante

     oltrepassare l’uomo sino alle soglie del nulla.

     Desidero comprendere per dimenticare.

 

Inizio proprio da questo cammeo poetico, per parlare della bella silloge di Massimiliano Cicoria.

Ci sono tre elementi fondativi che ritornano nello svolgersi della narrazione poetica: la natura, la scrittura e il desiderio. Coincidenza ha voluto che il secondo libro di poesie cadesse tra le mie mani, dopo aver sempre per caso e non conoscendoci di persona presentato il suo primo libro Quarantatre a Napoli. Esiste una linea tangenziale che unisce i due libri attraverso proprio questi tre elementi prima citati.  Il poeta costruisce una seconda fase creativa, un profondo sentiero introspettivo, utilizzando con cura e parsimonia la costellazione vegetale e primordiale delle parole. Indica l’atteggiamento contemplativo come strategia di sopravvivenza, come medicina curativa all’angoscia che emerge per gli interrogativi irrisolti. Comprendere per dimenticare, per trovare finalmente un poco di pace. Se il Piccolo Principe di Antoine de Saint - Exupery fosse diventato grande, avrebbe sicuramente trovato durante una sua passeggiata in un bosco immaginario questa silloge, che avrebbe decifrato come produzione gemella del suo pensiero.

 

     Dentro la casa fu posto il principio. La casa era verde, verde smeraldo; la

     casa era infiorata di fiori parlanti; gli occhi dei comodini guardavano il cielo; le

     maniglie d’avorio proteggevano la casa, la casa fatta di porte, fatte da me

     Il principio fu di non uccidere, di non spostare il confine…

                                                                                                                            

 

In ogni pagina, l’io poetante racconta in versi il significato simbolico di alcuni valori che sono alla base della riflessione esistenziale. I temi che affronta sono infatti il senso della vita, la speranza, il tempo, il limite, e ogni esplorazione avviene all’interno di un’atmosfera allegorica, quasi magica.  Cicoria vuole usare un linguaggio universale che parla a tutti, declinando il passaggio dall’ adolescenza all’età adulta, in una palingenesi spirituale. Si interroga sullo scopo dell’esistenza e sui suoi inganni. La poesia a volte è capace di creare un paese intero. L’immaginazione, pagina dopo pagina, costruisce delle tappe esistenziali, delle stazioni riflessive, che possono sembrare piazze assolate oppure stradicciole periferiche, quartieri e condomini interi. La conversazione poetica prende toni elegiaci e filosofici. Sensibile e acuto il dettato dei versi, che descrivono la fragilità umana davanti agli interrogativi dell’esistenza.

 

     Il paesaggio era composito. Il lume custodiva la luce e la falena accese il lume (come Prometeo) e

     dispiegò le ali di pergamena. Disse di z i t t i r e: qualcosa di eclatante sarebbe accaduto: sarebbero

     passate di là anche le formiche e forse la mosca entrata per rinfrescarsi. Nella casa assegnò i nomi alle

     cose (quasi fossero sue): vide il mestolo e le parve un pensiero poetico; gli occhiali e tutto fu veramente

     vero…

 

La poesia è parola che conquista il significato dello stare al mondo. L’ansia di trovare un ordine al caos primordiale, presenta la calma ieratica di un’avvenuta cosmogonia poetico- filosofica, capace di superare l’inquietudine derivata dalla consapevolezza della propria fragilità, dell’inguaribile debolezza umana.  Lo stile sobrio e asciutto, senza ridondanze e sbavature, indica questo abito mentale all’equilibrio interiore, una tensione forte e inestinguibile che sceglie ogni parola con chiarezza. Operazione di taglio e mai di aggiunta, sottrazione efficace e essenziale per dire molto con poco. Il ritmo poetico è scandito dalle immagini proposte, più che dalle risonanze foniche e ogni volta viene dipinta un’atmosfera onirica di sospensione panica, densa di riferimenti mitologici dove ogni animale e ogni germoglio assume potenza metaforica. Così possiamo immaginare il poeta antico che tramuta la realtà in fiaba e poi la fiaba in verso, per attrarre l’attenzione di chi lo ascolta. La fascinazione del racconto poetico continua e si squaderna in una danza classica di estremi rinominati e presenti. La poesia è creazione di ciò che rimane a molti invisibile.

L’autore apre la silloge con un testo quasi prosastico in cui Borges si muove simbolicamente in uno spazio di attesa, si allude alla sua cecità e la poesia finisce con un preciso riferimento al tempo e al labirinto metafisico, al senso irreale della ricerca. Il poeta che diventa cieco, ma che soffre di una alterità nello sguardo, una diversità che lo rende capace di interrogare e di interrogarsi per spingersi verso un altrove che nella norma viene escluso, bandito. Così inizia il libro, ricordando questa segnatura che può diventare una sprezzatura, direbbe Guicciardini. Il poeta si pone ai confini, è creatura di frontiera. Proprio da questa collocazione atipica e estraniante vuole iniziare il viaggio di Massimiliano Cicoria, viaggio che si conclude con un altro testo in prosa poetica, e si ritorna al mare, a quello sguardo sulle cose, che accarezza e indaga, inutilmente perfetto. E più volte lo dice, in disperante sgomento. La scrittura descrive, traccia la linea sensibile di ogni percezione reale, ma il mistero rimane fitto, intricato.  Al poeta cieco come Borges, come fu Omero, non resta che lo sguardo attonito sulle cose.

 

 

 

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