Scendere nel sangue per cercare la domanda più antica
Elio Scarciglia, Cappella Baglioni di Spello, I volti del Pinturicchio

Scendere nel sangue per cercare la domanda più antica

diElena Miglioli

Giancarlo Sissa, nel suo ultimo libro ‘Archivio del padre’, ricostruisce la “statua” del genitore scomparso, che gli ha insegnato a trovare “anima ovunque”


“Caro papà. Da quel giorno interi. Pezzi di mondo cadono dal calendario. Stanchi come fossero veri”. Nel suo ultimo libro, “Archivio del padre” (MC edizioni), il poeta Giancarlo Sissa ricompone il mosaico della memoria del genitore tassello per tassello. Come nell’atto di ricordare, anche le frasi della sua prosa poetica ci arrivano frammentate. Rotte dalla punteggiatura che forse intende servire proprio questa causa, oltre che mettere in risalto l’una o l’altra parola. 

“Pezzetti di luce annidati in uno sguardo”, le parole. “Poche, tutte buone”, come sottolinea Pasquale Di Palmo nella prefazione, prendendo in prestito la descrizione che l’autore fa della nonna. L’incedere a strappi, quasi con prudenza della scrittura, potrebbe poi rifarsi a quell’umiltà più volte invocata in queste pagine dense di sentimenti contrastanti: “Si spostino da me quelli che hanno. Ragione”. O ancora: “Bisognava avere pietà prima smetterla. Di avere sempre ragione”. E più in là, nello stesso brano: “Perdono contrario della. Dimenticanza contrario. Della presunzione”. Del resto, aggiunge Sissa: “Viene il giorno che finalmente non contiamo più nulla e siamo pezzi di sole presi in una pietra”. 

Il sole. C’è sempre una luce soffusa o diffusa che, come in certi quadri, rischiara. Anche le cose più dolorose. A partire da quel corpo disteso nella bara, che si trasforma in “un gesto enorme”, visto che “la morte è uno scandaglio luminoso”. Così, al peso della fissità della fine subentra sempre un’immagine di levità, “le ceneri posate al mattino sul lago”, che il padre attraversò a piedi in un inverno di ghiaccio e giochi, gli aironi bianchi fra i campi visti dal treno in corsa.

Nel suo diario, l’autore riporta anche alcune annotazioni della sorella, offrendo un secondo punto di vista sempre interno alla famiglia e quindi intimo e commosso. Restando nel campo della metafora pittorica, quasi un’angolatura altra dalla quale osservare e dipingere l’amata figura paterna. Oppure un estuario di quel “fiume” che ogni diario rappresenta.

Tornando alla lettura di Pasquale Di Palmo, colpisce la convivenza di uno stile diaristico, colloquiale, con quello più aulico. Sissa vuole “creare termini di ascendenza diversa ispirandosi ai canoni dell’oralità”. Quindi: “È un discorso, quella della commistione fra basso e sublime (…) che permea tout court l’opera di Sissa, che non a caso prende abbrivio da moduli non dissimili a quelli adottati da Giudici per istituire la sua ‘Vita in versi’ o da Benzoni, che sulla falsa riga di Sereni, sembra far cozzare parole di derivazione profondamente differente al fine di creare un cortocircuito linguistico che riesca a sopperire all’impasse costituita dalle derive autoreferenziali della neoavanguardia”. 

Con pennellate struggenti e intensissime - fra fantasmi, bicchieri di vino, figurine, matite colorate, fiori di loto e tanta nebbia mantovana - Giancarlo Sissa riconsegna a sé stesso e a chi legge “la statua” dell’uomo che gli ha insegnato tanto. Che gli ha insegnato la vita. Invitandolo, soprattutto, a scavare nel profondo per trovare “anima ovunque”, a “scendere nel sangue e cercare la domanda più antica”. Per poi “risalire senza fiato”.


24 maggio 2018

Quest’uomo seduto su una panchina nella piazza allagata dal sole. Quest’uomo che attende e ci parla lontano. Quest’uomo prima che arrivassimo era. La statua di mio padre. Antichissima nella luce e un giorno. La mia.



Venerdì 19 ottobre 2018 Edimburgo

Vigilia di Natale. Su due poltrone a tazza di tè. Non ti ho mai sentito cantare. Padre liberaci dal male. Padre papà ragazzo.

Ti abbraccio figlio mio padre ti abbraccio.

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