
Squittii di Roberto Lumuli Gaudioso
La prima raccolta di poesie pubblicata da un allora giovane Roberto Gaudioso aveva come titolo Camere contigue – titolo, fra l’altro, proprio anche di uno dei componimenti principali. Ritroviamo questa poesia anche in Squittii, a ricordarci l’inizio del cammino che ha portato Gaudioso a quest’opera: le camere contigue / sono una vera maledizione – / sempre così vicine mai / esattamente uguali – che si decidano! / che rompano quel muro / facendo così straripare / l’una nell’altra – oppure / che ci diano almeno dei soldati / a difesa della nostra porta. Il testo che dava il titolo alla prima raccolta dell’autore si chiude con un dilemma: lo stato-limite della contiguità dev’essere superato da una rottura, uno straripamento, o al contrario confermato da uno sforzo di difesa? A giudicare dal percorso poetico successivo, la scelta dell’autore è ricaduta sulla prima alternativa e di questa decisione Squittii è un manifesto.
Una raccolta, quindi, dello straripamento, della transizione, del passaggio alla frontiera. Non della sua distruzione: Gaudioso non è interessato ad abolire le frontiere, soprattutto se ciò dovesse comportare l’abolizione della diversità che esse significano. Piuttosto, si tratta di vivere la frontiera: fotografare quell’attimo del viaggio in cui un piede è avanti e l’altro è dietro il confine, e il corpo è di conseguenza, per un istante infinitesimo, sé e un altro. Prima ancora che i testi, a dare atto di questo tema di fondo è la struttura della raccolta stessa, che, dopo, un prologo, si divide in quattro movimenti che con i loro titoli descrivono un moto armonico, un’oscillazione, attraverso la frontiera che ha visto Gaudioso crescere – il Mediterraneo. Il primo movimento è intitolato “sulla sponda di casa”: il luogo di chi, preso atto del suo bisogno di espandersi, abbandonando le mura domestiche si avvicina alla sua prima frontiera con speranza e paura. Comincia poi il moto armonico, sempre nel primo movimento abbiamo la sezione “a nord della soglia”. Il lettore che segue il viaggio di Gaudioso arriva con questa sezione al punto più alto, letteralmente più settentrionale, del suo viaggio, al limite geografico della frontiera; è però in questo punto stazionario che egli prende ad accelerare in direzione opposta, coprendo le distanze verso sud (secondo movimento: “mediterraneo e altre soglie”), fino alla nuova stazionarietà sul lato opposto (terzo movimento: “a sud del mediterraneo”). A questo punto, una nuova, opposta accelerazione riporta i passi verso Nord. Sembrerebbe un’altalena senza fine, se non fosse che quest’oscillazione armonica termina effettivamente nel quarto movimento, “transcorrere”: ora siamo di nuovo fermi, e presumibilmente davanti alla soglia di casa da cui siamo partiti, ma non siamo più gli stessi. Siamo diventati noi stessi frontiera, noi stessi transizione, noi stessi molteplicità e diversità. E la conseguenza più manifesta di questo nostro cambiamento è il nostro modo di intendere il linguaggio.
La lingua, anzi le lingue, è probabilmente l’elemento più usato da Gaudioso in questa raccolta per poetizzare la transizione. I componimenti in altre lingue (swahili, kerewe), o in più lingue freneticamente alternate (in un’oscillazione sempre più veloce) sono tanti e, per usare un tecnicismo, costituiscono forse lo stilema più caratteristico dell’autore. Questo stilema è così centrale nella raccolta che si potrebbe dire che quella di Gaudioso è poesia della diversità, dell’incontro con l’Altro; si tratterebbe però di una lettura fuorviante. Quella di Gaudioso non può essere poesia dell’Altro rispetto a sé, perché parliamo di un sé alla frontiera: il sé è anche l’Altro. L’attraversamento della frontiera esclude, annulla ogni distanza, sia geografica che culturale: per questo non importa (non ai fini dell’interpretazione di questo singolo stilema, per lo meno) interrogarsi sul perché Gaudioso prediliga in modo particolare, fra tutte le lingue utilizzare, quelle latine (spagnolo, italiano, napoletano e, più raramente, salentino) e quelle bantu (swahili, shona, ma anche kerewe). Gaudioso, che certamente rispetta e guarda con attenzione alla diversità culturale, non vuole darne qui una sintesi; al contrario, vuole viverla sia come tesi che come antitesi.
Rispetto allo stilema del plurilinguismo, superare la diversità non porta all’elaborazione di un “super-linguaggio”, dato dall’unione di ogni singola lingua, ma al contrario al superamento del linguaggio. La parola della sua poesia è essenzialmente suono, è squittio come il titolo stesso suggerisce. Squittire non è affatto paragonabile, né per utilità né per complessità, al linguaggio umano; ma non per questo i topi non riescono a comunicare squittendo.
È soprattutto in una poesia (posta nel terzo movimento) che lo squittire si fa manifesto, come realtà alla frontiera – elemento, come si vede, onnipresente – fra suono e linguaggio. Ne si riporta qui la prima parte:
e le mie parole si fanno | ||
rosse | ||
come | ||
dove | ||
la terra | ||
al ritmo | ||
danza | ||
il sole | ||
upeo wa macho karibu umejaa jua | ||
afrika | ||
in africa lo zenzero è un colore | ||
la musica tutt’uno col sapore | ||
è pelle tesa su un buon legno | ||
percossa | ||
tensione | ||
percossa | ||
Tendere fin su verso le stelle | ||
canto | ||
un tamburo la mia pelle | ||
le mie parole sorci | ||
mi faccio brigante | ||
vesti femminee e petto villoso | ||
non canto che i topi | ||
rossi topi | ||
come lune | ||
Alle quali canti affogati | ||
Immolano grido d’agnello |
È qui che vediamo, al diciannovesimo verso, finalmente i “sorci”, i versi dei quali danno un titolo alla raccolta. Tutto questo componimento è un inno alla transizione, attraverso molteplici frontiere. La prima frontiera è quella fra suono e silenzio: questi versi brevi, indentati e frammentari, sono composti di silenzio tanto quanto di suono. Tutti noi conosciamo istintivamente la frontiera fra suono è silenzio: è il ritmo, che Gaudioso costruisce qui magistralmente proprio attraverso l’indentazione grafica ( [ ] percossa / tensione [ ] / [ ] percossa). Ancora prima della frontiere fra lingue, abbiamo quindi quella fra suono e silenzio: è solo dopo che arriva il plurilinguismo, nei versi in swahili “upeo wa macho karibu umejaa jua / [ ] afrika”. Le altre transizioni sono dei sensi (“in africa lo zenzero è un colore / la musica tutt’uno col sapore”), del corpo e del genere (“vesti femminee e petto villoso”) e soprattutto dell’arte e del sangue. La pelle del tamburo che verrà “percossa” ci ricorda del suo processo di preparazione, passato dal macello e dallo scuoiamento. Trasformare la materia in arte esige un tributo, sembra, di sangue. Ed è nel sangue che, finalmente, vediamo i sorci e i topi come sintesi ultima di questa transizione: topi che squittiscono un suono flebile al limite del silenzio; topi che sono rossi, come il sangue del golfo della transizione attraversato da Ogun (cfr. con il primo poema della raccolta) topi rossi come il sangue e come agnelli sacrificali.
Su questa idea di transizione, di frontiera, può leggersi anche la densa rete di riferimenti intertestuali che è, come appare da subito agli occhi del lettore, una caratteristica centrale della raccolta. Si tratta di un’intertestualità in gran parte esplicita, dichiarata, e utilizzata strategicamente; in effetti, in questa raccolta, è proprio questa rete intertestuale la prima e più profonda simbolizzazione data della frontiera, del transcorrere. Nel suo cammino di formazione universitaria e poi di ricerca, Gaudioso ha costruito uno stretto rapporto con la letteratura swahili, trovando in essa dei maestri. Dei maestri, non dei meri autori di riferimento o delle fonti di ispirazione: ci troviamo di fronte a un rapporto che anticipa la dimensione letteraria. Da questo punto di vista, particolarmente indicativo è il componimento (a pagina 90) a Euphrase Kezilahabi, gigante della letteratura swahili moderna, venuto, purtroppo, a mancare nel 2020. Gaudioso ha dedicato buona parte della sua attività di ricerca accademica all’opera di Kezilahabi, arrivando ad intervistarlo – e quindi a conoscerlo di persona – a Gaborone. È stato, probabilmente, allora che il rapporto fra i due si è evoluto dal riferimento letterario a quello di maestro e allievo, descritto dal componimento:
sasa mwalimu wangu ukimya wako | ora maestro mio il silenzio tuo |
umezidi uzito wake kifuani mwangu | ha superato il suo peso sul petto mio |
umenifundisha bila kuongea | m’hai insegnato senza parlare |
maneno yako yalikaa wa-kati | le tue parole stavano nel mezzo dei tempi |
yalichoma nyama yangu | hanno trafitto la mia carne |
kama ya mshikaki iliyochinjwa iliyojiunga | come uno spiedino, macellato e ricomposto |
È evidente, da questi primi versi, come il rapporto fra il maestro e l’allievo qui non si fermi al letterario. Se l’opera di Kezilahabi è, indubbiamente, un riferimento importante per il poeta flegreo, lo stesso non può dirsi del Kezilahabi uomo. Quest’ultimo è stato piuttosto un maestro di transizione: da lui Gaudioso ha appreso l’arte del trasformarsi.
La trasformazione, Kezilahabi docet, è un atto di dolorosa corporalità e concretezza: bisogna accettare di vedersi costretti in una nuova forma. Come avviene per un pezzo di carne, per trasformarci dobbiamo essere trafitti, frollati, macinati e di nuovo ricomposti in una nuova forma. È una questione di sangue. È una questione così sanguinolenta che quasi sfugge al potere espressivo della parola: la trasformazione non va detta, ma attuata (meglio, subita). Per questo il maestro insegna all’allievo “senza parlare”, e per questo il suo silenzio diventa, monito di morte e rinascita, un insostenibile peso sul petto. Molto esplicito da questo punto di vista è il verso maneno yako yalikaa wa-kati (“le tue parole stavano nel mezzo dei tempi”). L’espressione wa-kati, qui, è un riferimento esplicito al wa-kati kezilahabiano, a ciò che può essere sia wakati (“tempo”), sia -wa kati (“essere in/nel mezzo”): Gaudioso, che, come accennato, ha studiato Kezilahabi anche da accademico, riconosce in questo concetto una riscrittura del mitdasein heideggeriano. Le parole del maestro sono wa-kati, sono parole alla frontiera.
Allo stesso modo, è wa-kati tutta la rete di intertestualità che sorregge la raccolta di Gaudioso. Lo scopo di questo poeta della transizione non è sintetizzare stimoli diversi in qualcosa di nuovo, coerente e unitario: al contrario, è quello di invitarci a restare nella rete di questi stimoli. Percorrere questa rete, soffermarci di nodo in nodo, è la sintesi che ci offre la transizione. Quanto detto non vale solo per Kezilahabi, ma per tutti i riferimenti della raccolta. Il secondo componimento della raccolta (pagina 8) è costruito su una serie di invocazioni agli orisha, ai personaggi di origine divina del Pantheon Yoruba. All’orisha Oyà, che regola il vento e la tempesta e accompagna le anime nel regno dei morti, il poeta chiede:
oyà come te sia la mia poesia
sillabe parole ultime confida
alla mia gola che apprenda
kisichobadilika kimekufa.
L’ultimo verso, dal significato “ciò che non cambia è morto”, è in swahili ed è ripreso direttamente da Kezilahabi. Gaudioso chiede ad Oyà delle parole i transizione, e chiede di riceverle non nella mente o nella bocca, ma nella gola: anche questo è un riferimento a Kezilahabi, il quale rappresenta spesso la morte, il dolore e la prigionia richiamandosi a questa parte del corpo. Nella prima raccolta di Kezilahabi, Kichomi, la poesia Dhamiri yangu (“la mia coscienza”) comincia con il verso Dhamiri imenifunga shingoni (“la coscienza mi serra la gola”); la poesia Fungueni Mlango (“Aprite la porta”) raggiunge il suo climax con i versi ninapiga kelele kama / ng’ombe machinjioni (“urlo come / un bue al macello”: un bue, quindi, che urla dalla gola e che sta per essere sgozzato).
Oyà non è l’unica entità invocata nel componimento: figura anche Ogun, il primo orisha a presentarsi agli uomini, attraversando il golfo della transizione, un golfo fatto di sangue. Torneremo su questa potente equazione (transizione, sangue) fra poco.
Come osservato all’inizio, la transizione di Gaudioso è anche transizione geografica e questo non può non riflettersi nella sua intertestualità. Oltre ai richiami provenienti dal continente africano, sono molti e densi anche quelli alle lingue e culture europee. Frequenti sono i versi in tedesco, lingua che Gaudioso ha studiato nel suo percorso accademico; ma è l’Europa meridionale ad essere, in questa raccolta, terreno di ritorno e di esplorazione. Di ritorno, perché Gaudioso utilizza due lingue sudeuropee che sono anche sue, l’italiano e il napoletano; di esplorazione, perché nel suo racconto del meridione vi sono anche espressioni linguistiche che non rimandano alle sue origini. Alcuni dei versi della raccolta sono in salentino; ma è soprattutto il castigliano ad essere un importante protagonista del multilinguismo del poeta. Gaudioso gioca sulle suggestioni di un castigliano genuinamente mediterraneo, più che sudamericano: infatti, nella sua raccolta egli fa sue non solo la lingua, ma anche le forme metriche più tipiche del flamenco. Ne vediamo un esempio nel componimento a pagina 58, di cui riportiamo le prime due strofe:
ay! ay que dolor gino
sin tu abanico no
no se mueve el aire
se muere ya
gino sin ti sevilla
ha decolorado el arco
la macarena llora
sangre de esperanza
piace a noi ciò
non tiene nome
ciò che siamo
scorre come rivo
Dove, ancora, vediamo dolore, pianto. E sangue, il quale, come abbiamo già visto, è particolarmente prediletto dall’autore come simbolo della transizione. L’utilizzo del sangue, di una simbologia yoruba, in un componimento di chiara ispirazione andalusa rivela il carattere del multilinguismo di Gaudioso: non un multilinguismo della sintesi, ma della frontiera. Abbiamo, qui, una poesia che, parlando di flamenco e di Spagna, guarda alla Nigeria. E si potrebbe dire l’opposto del componimento precedente. Le due poesie, infatti, sono sorprendentemente convergenti a livello strofico. L’ultimo componimento citato, dopo le prime strofe iniziali di lunghezza variabile, tende a una successione di quartine molto regolari a livello metrico (terzo verso di ogni strofa endecasillabo, più raramente decasillabo; gli altri settenari):
seguo lo scrosciare
del guadalquivir già
aprile fiorito di jacaranda
è muta la città
gli orli danzano
in case di legno
un tendone da circo m’aspetta
per non lasciar segno
ad aprile siviglia
lì a los remedios
nessun esorcismo via la tristezza
los formalitos
la carmen la sera
lamenta amori
como una niña vieja con hombres
lasciavano umori
È interessante notare come anche nel componimento a pagina 8 vi sia lo stesso tendere verso la regolarità strofica e la quartina. Se, anche in questo caso, le prime strofe contengono dai tre ai sei versi e sviluppano insieme un discorso che si snoda senza soluzione di continuità, a partire dalla quarta strofa (quella citata in precedenza) si segue rigidamente lo schema delle quartine. Non solo, ma più la poesia progredisce più lo schema si fa definito, anche grazie all’uso delle rime (assenti nella prima parte del testo):
ogun danzando apri strade
dal sangue incandescente
ogni arduo sentiero arde
e foggia la mia mente
invoco voi il mio cammino
iba fun gbogbo yin vi giunga
vibrante mia gola ma infranta
nella terra dove non tramonta
È bene precisare che Gaudioso qui non utilizza la rima italiana ma bensì quella swahili, che consiste nell’uguaglianza esclusivamente delle ultime sillabe di due parole: quindi non solo “incadescente” rima con “mente”, ma anche “arde” con “strade” e “infranta” con “tramonta”. L’io lirico, insomma, è al cospetto delle divinità yoruba, ma una parte di lui tende già al ritmo iberico e al suono del swahili. Vuole andare fuori, attraversare; vivere ogni luogo abbandonando tutti i luoghi.
Transizione, dunque; frontiera; divenire; essere sé e l’altro; vivere il diverso in quanto diverso. In conclusione, non si può che invitare il lettore a cercare, nella poesia di Squittii, la propria frontiera da attraversare. L’esperienza poetica di diversi anni, culminata in questa raccolta, ha reso Gaudioso un maestro dell’andare attraverso. Facciamoci prendere per mano e varchiamo anche noi la soglia.
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