Un labirinto di parole ovvero le parole a noi straniere
Giuseppe Letizia, Genesi, pietra leccese

Un labirinto di parole ovvero le parole a noi straniere

diVincenzo Crosio

(Sul recente saggio e sulla silloge ‘La porta sulla luna’ di Cinzia Caputo, edizioni di Terra d’Ulivi).

 Un labirinto sono le parole ed io aggiungo ‘le parole sono a noi straniere’. Una qualità che i Greci riconoscevano ai barbari in quanto dicitori di linguaggi a loro sconosciuti, stranieri per fonematica e soprattutto per logica del senso avrebbe detto con acume Deleuze. Ma ciò che era rimasto straniero, estraneo da tempo immemore era quel lascito sapienziale definita prisca teologìa, antica sapienza del divino che nel passaggio alla civiltà greca politica, della polis, in qualche modo andava dispersa e dimenticata in quanto priva di autenticità epistemica. Questa è una battaglia da ascrivere ai socratici e ai platonici-aristotelici, anche se tracce orfiche pitagoriche sono evidenti in Platone, tanto da sancire la separazione filosofica e dottrinale tra i due massimi sapienti, Aristotele versus Platone.Da un lato con i logoi, con le parole scritte, alfabetiche di retaggio fenicio-.cadmeo, andava fatta una cernita tra quelle economiche e quelle non economiche, quelle che sul mercato potevano assicurare certezza sul prezzo e sullo scambio e dall’altro una meteora di parole che divennero di fatto straniere, poco comprensibili. Rimasero solo in parte patrimonio dei Lossografi e commentatori dotti elencati nel famoso Lexicon Suda, dove attingeranno fertilmente i filologi tedeschi tra cui Nietzsche, su quell’Aristotele perduto, sul quel continente quasi dimenticato e smarrito di parole e di concetti che afferivano a quelle parole straniere e alle loro divinità tracofrige, che rimanevano scolpite nelle parole sibilline di profeti e soprattutto profetesse. Non lontano da noi, dalla terra della Magna Grecia, si profetizzava sull’oltre, sull’abisso e sugli inferi nelle ancora permanenti comunità orfiche pitagoriche di Cuma ad esempio, nelle cui terre dominava, come matriarca e decisore di cosa la Sibilla potesse dire e non dire, la antichissima madre di virgiliana memoria, Demetra la dea anche della religione ctonia. Ed accanto, nelle sedi infere di Ade, dove la giovane Persefone smarrisce la sua identità solare per diventare regina del mondo infero. Ma questo nel mito si fa storia e soprattutto linguaggio. Nel suo splendido saggio ‘Il labirinto delle parole’ che accompagna la raccolta di poesie altrettanto preziosa  ‘La porta sulla luna’ cita con estrema perizia l’autrice Cinzia Caputo, dotta indagatrice del mondo infero, abissale della coscienza umana e delle parole esercizio di tale coscienza straniera, del suo labirinto e del suo linguaggio onirico, cita Cinzia Caputo James Hilmann che in questo frammento chiarisce molto bene di cosa si tratti:’Il mondo infero è una comunità di figure innumerevoli,l’infinità varietà di figure riflette l’infinità dell’anima, e i sogni ripristinano nella coscienza questo senso del molteplice. La prospettiva politeistica è fondata nelle profondità ctonie dell’anima’.

Sono due allora le dimensioni, una quella del linguaggio onirico e l’altra del linguaggio poetico che di questa tessitura si deve far interprete per non lasciare il mondo nell’abisso della disperazione, di un orfico fallimento alla ricerca di un fantasma, Euridice. Solo la cura e l’amore femminile, materno fanno della culla, nave transitoria dall’ignoto non esperienziale al noto esperenziale del mondo nell’infante, il luogo di rilascio di questa divinità ancestrale e poetica, Memnosine, dove il farsi linguaggio, del parlare della madre al figlio, crea quel deposito/oggetto transizionale come lo chiama Winnicott, dove nel tempo il bimbo-adulto potrà trovare le parole/salvezza nell’incontro del suo io nascente con un non io nato e non conosciuto, esperito. Ciò che anche i filosofi della scuola indobuddhista detta della sola coscienza, dello Yogachara, del seicento dopo Cristo, intuisce in modo clamoroso, intuisce già queste procedure mito poetiche dell’anima e del suo linguaggio. Cosa che De Saussure trarrà nella sua linguistica, che cioè una cosa sono le parole, una cosa il loro significato, che il significante solo accenna ma non chiarisce, costituendo appunto il confine esperienziale tra noto e non noto. Questo compito di chiarimento misterioso se lo assume per l’appunto il linguaggio onirico e poetico, quasi nuova scienza mantica del dire la verità, come brillantemente ribadito in Gaston Bachelard e in Julia Kristeva.  E’ questo il dono prezioso, preziosissimo, della raccolta poetica di Cinzia Caputo ‘La porta sulla luna’, ove le parole, pur rimanendo straniere, ci diventano familiari, diventano parole di un altro senso e di un altro segno, cosa per lo più sconosciuta ai numerosi poeti e poete, spesso e frequentemente con rarissime eccezioni, del nostro tempo. Questa è la cifra e la qualità della parola detta poeticamente da Cinzia Caputo.Basta leggerle le poesie per capire questo cercare nel misterioso,myo dicono i giapponesi zen, il senso nascosto di una cifra altrimenti incomprensibile. Con altra mente ed altro ascolto ovvio. S’apparisce d’un tratto ciò che agli antichi era chiaro, l’insight fondamentale del linguaggio come matrice di senso. Non dico altro perché si aprirebbero le porte dell’infinitamente grande e non è questo il mio compito. Affido per questo al linguaggio lunare e poetico di Cinzia Caputo, il senso nascosto e rivelato del dire stesso. E’ una grande conquista, per me è una grande conquista, per tutti noi è una grande conquista. Una Orfica ed Euridìcea verità.

 

‘Mediterraneo

Mare in frammenti

 i corpi

nel sangue raccogli.

 Dalla Colchide alle colonne d’Ercole,

dall’oro del vello all’oro dei leoni

 ci abita intorno il mare in cui abitiamo.

 L’Odisseo, il dolente, mise prua ad occidente

Inseguendo la rotta del sole

 verso la casa di Ade.

Dall’Oriente perduto nell’incendio di Troia

 Itaca è lontana,

 solo per Lei tutto diviene sogno.

 

La vergine di Efeso riappare

nella lunga cometa d’ossidiana,

 nel damasco degli occhi di ragazze,

 nel loro canto di sirene.

 

Le arpie, divinità del destino

creature dell’informe

 popolano questo onirico mare,

ombre delle antiche madri dimenticate

nei templi ora dimora

 di uccelli rapaci

nei volti attoniti di profughi siriani.’


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