A due voci - quarto capitolo
Elio Scarciglia, Matera

A due voci - quarto capitolo

diStefano Patuzzi

Se possibile preferiva usare il confessionale di destra, guardando la porta d’ingresso dalla navata. Per qualche motivo irrazionale gli pareva più appartato rispetto all’altro, a una decina di metri sulla sinistra. Oltretutto gli piaceva rinchiudersi in quel bozzolo di legno scuro dal buon odore che sapeva per lui di tradizione (gli ricordava Roma) e lo faceva sentire ancor più protetto. Ma, ben più di questo e più di tutto, attribuiva davvero, da sempre, un significato di importanza speciale a quel gesto di ascolto, comprensione e remissione; un gesto, per citare la Scrittura, che si poteva paragonare a un sorso d’acqua fresca nell’arsura spirituale del deserto che li circondava e si allargava sempre più. Non che sposasse l’idea di un mondo peggiorato, degradato nel tempo, tutt’altro; lui, don Palmieri, credeva semmai che il mondo, nella sua interezza, fosse diventato un posto migliore rispetto a due, cinque, dieci secoli prima, anche (se non soprattutto, a suo modo di vedere) grazie all’azione pastorale della Chiesa. Eccome. Ma allo stesso tempo – se pensava ai decenni recenti – aveva via via preso atto dell’importanza sempre più modesta, sempre più ai margini e di intensità sempre calante del peso delle cose dello spirito nella cornice della società: sia di quella italiana, sia di quella americana, le uniche che poteva dire di conoscere un po’. Sembrava che le persone soffrissero di una sorta di cecità selettiva, che non consentiva loro di vedere gli aspetti essenziali e di credere fermamente che la felicità stesse nei salari, alcuni a sei cifre, o nei benefit di cui sentiva ogni tanto parlare, nell’auto di lusso o nella seconda casa, nelle serate mondane a teatro o a qualche evento, nelle atmosfere inconsistenti, irreali persino, del golf club. Eppure le persone si ostinavano tenacemente a riporre speranze in quell’illusione di felicità, spendendo sempre più denaro; a credere che il successo avrebbe reso migliori – forse più piene, più significative? – le loro vite, quando in realtà mesi e anni passavano, e quelle persone trascuravano del tutto il mondo delle realtà nascoste, per le quali non riuscivano a raggranellare neppure pochi minuti al giorno. 

Non c’era quasi più sete, ecco. 

C’era invece una curiosa ironia, trovava, nel fatto che molti e molte di loro recitassero ogni domenica le parole «di tutte le cose visibili e invisibili», quando in realtà a queste ultime non prestavano la minima attenzione; e tuttavia, a pensarci bene, ai loro occhi lo erano davvero, invisibili: impossibilitate a essere viste. Non si rendevano nemmeno conto che avrebbero potuto adattare a loro stessi, e senza sforzo, le parole del salmo: «Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono». Verità semplici, eterne, che la Chiesa predicava da secoli: repetita iuvant, quanto è vero. Ma, come tutte le verità semplici ed eterne, in attesa di essere riscoperte e riconquistate e rivissute ogni volta di nuovo, individualmente, nell’alveo tortuoso e unico della vita di ciascuno.

In quel pomeriggio di febbraio la chiesa era quasi deserta: solo un paio di fedeli nella bancata di sinistra della navata centrale, a una decina di metri l’uno dall’altra. A capo chino lui, sui quarantacinque, meditabondo e visibilmente preoccupato, gli avambracci poggiati sulle ginocchia, le mani intrecciate e la fronte appoggiata ai pollici; sui sessanta, lei, un poco trasandata e stanca, con gli occhi fissi al tabernacolo dorato incastonato nell’altare di marmo bianco, come se stesse vedendo davvero o cercando qualcosa, gli occhi velati di paura: forse un esito medico o un futuro incerto, senz’altro sospesa a un filo d’angoscia. Mark aveva riflettuto molte volte, prima da seminarista e poi da prete, sul senso di conforto e di protezione, di abbraccio, che le chiese porgevano e davano ogni giorno, su tutta la superficie del pianeta, in ogni continente. Specialmente nei giorni feriali, specialmente nelle ore centrali delle mattine o dei pomeriggi in cui il mondo, fuori, scorreva affaccendato e noncurante; o forse solo monotono abitudinario inesorabile impaurito. Entrare in una chiesa in quei momenti – pensava – significava compiere una scelta precisa: la scelta di sottrarsi al tempo, vorticoso e denso, delle attività fruttuose per entrare in un altro tempo intriso di una qualità differente, subito caratterizzato da un rallentamento immane e repentino, da stasi e silenzi, da pensieri e da preghiere pensati e non detti: un frammento di eternità.


Lei entrò un poco esitante, facendo cigolare la porta spessa in legno; avrebbe potuto tenerla, ma per qualche motivo si tolse la cuffia spessa d’un azzurro intenso. Un segno di croce fugace e a scatti, nervosamente; una genuflessione solo abbozzata; uno sguardo indietro, al confessionale, cercandolo e quasi temendolo al tempo stesso. Qualche passo esitante in avanti, giusto per inginocchiarsi all’ultimo banco. Un’occhiata smarrita al tabernacolo, poi a capo chino per qualche minuto; raccolta, triste, cupa. 

Un altro segno di croce e pochi passi in direzione del confessionale. Si inginocchiò.

Le usuali formule d’inizio, poi iniziò a parlare e a srotolare il nastro, metodicamente, proiettando su quel prete – che non conosceva – l’angoscia che le stringeva lo stomaco e il cuore da troppi mesi: parlò prima di sé, del marito, delle due figlie ormai grandi; di una vita normale, persino grigia, scandita metronomicamente dalle varie quotidianità delle loro esistenze; lineare, prevedibile, troppo spesso monotona. Quando, d’improvviso, una sensazione di inquietudine e un’impellente ricerca di senso si erano affacciate in rapido crescendo poco dopo aver conosciuto Matthias.

Se qualcuno glielo avesse chiesto, e don Palmieri certo non lo fece, sarebbe stato complicato, per lei, ora, descrivere Matthias. La sua immagine di lui era ormai come un collage multicolore un po’ sfocato, fatto da un caleidoscopio di ricordi, di sorrisi, di sensazioni, di attese, di pungenti sensi di colpa, di sorprese: tasselli appiccicati uno di fianco all’altro, alcuni sovrapposti in tutto o in parte, a formare la sua, unica personale composita tormentata inspiegabile indicibile immagine di Matthias.

E cominciò davvero a dire – con una pronuncia curata, quasi neutra – parole intrise di tristezza. 

“L’aria nell’abitacolo era tiepida, padre, eravamo in autunno. Avevamo una mezz’ora, forse un po’ di più. La voce di Matthias si spandeva lentamente, intensa. Io ero arrossita un po’ – arrossisco per nulla, a volte – e lo guardavo. Stavo provando per una delle prime volte la sensazione nuova, per me del tutto insolita, di essere la sorgente di una distesa d’olio che seguitava ad allargarsi placida, senza fine, senza ostacoli, fino all’ultimo orizzonte. A casa era il contrario, da sempre, e non passava giorno senza che ci fosse il bisogno di spiegare e incespicare e innervosirsi e tradurre quello che sentivo per renderlo comprensibile a mio marito, per renderlo accettabile, razionale ai suoi occhi. Matthias sembrava invece capire quello che dicevo, come lo dicevo: sembrava captare le mie infelicità, le mie paure, come se si sintonizzasse ogni volta, naturalmente, sulla giusta lunghezza d’onda; come se avesse il metro giusto per misurarle. E – questo è il bello e la cosa orribile – a me pareva un metro naturale: era chiaro, voglio dire, che non si stava sforzando per niente, padre. Le parole di quel dizionario lui le conosceva; sembrava conoscere bene, a una a una, le note di quella melodia. Continuavo a parlare, lui guardava lo spiazzo vuoto e nebbioso davanti all’auto e annuiva in modo impercettibile fra sé, ogni tanto; partecipe. Più taceva e più sembrava capire, e questo spiega perché io mi sentivo spaventata dai suoi silenzi. Ogni tanto commentava e faceva una domanda o suggeriva un modo per invitarmi a uscire da quel pezzo di labirinto. Quante volte mi è sembrato di vedere per la prima volta con chiarezza, mentre parlavo con lui? Quante volte l’impalcatura fragile che avevo dentro era collassata, e la mia percezione, amplificata, me ne faceva sentire tutto il peso, come se mi fosse crollata addosso? Vede, padre, a volte stavo lì inebetita, come un’assetata, impossibilitata a bere, davanti a una fontana. Un paio di mesi e si presentò poi una sensazione terribile: come di essere intrappolata e prigioniera a casa mia. In compagnia di estranei, quando la domenica le ragazze erano a casa e l’atmosfera sorridente di festa era l’opposto, anche grottesco, anche straniante, quasi un ghigno, di quello che mi ribolliva dentro. Ricordo bene che il desiderio di piangere e fuggire è stato grande ed è durato per mesi, almeno. Pregustavo una liberazione, nei momenti di forza; nei momenti di debolezza reagivo invece strappando al tempo qualche momento per me e mi rifugiavo in una lettura, in una canzone, aspettando il messaggio in cui Matthias proponeva un momento in cui ci saremmo potuti vedere, e dove. Alcuni pomeriggi, all’inizio, erano quasi senza fine e il dolore dentro urlava forte, cavernosamente. Le lacrime improvvise arrivavano brucianti, la sensazione che tutto fosse sbagliato mi consumava. La certezza che niente poteva cambiare, ormai, era chiara. In fondo, come schiacciata, come compressa, sentivo anche lievitare il peso di un errore, di quell’errore di quasi trent’anni prima che mi aveva portato all’altare a vent’anni, con un uomo semplice, che mi aveva fatto sentire al sicuro, fors’anche protetta. Non so, non ricordo più. Ecco un’altra cosa tragica, padre: non ricordo davvero più, ho come la sensazione di parlare di un’altra. E aveva ragione da vendere, Matthias, anche su questo: in quella foto che gli avevo fatto vedere, quella scattata un paio di settimane prima del mio matrimonio, non avevo gli occhi tristi? A rivedermi oggi sembra tutto chiaro. Certo: erano occhi tristi, quelli, non di chi sta per diventare sposa. Il che mi ha portato cento volte alla vera domanda: mio marito, io, l’ho mai amato davvero? Voglio dire, rispetto a quello che sento per Matthias, che cosa ho provato davvero, in questi trent’anni, per mio marito? L’ho mai amato davvero? 

Non riesco a rispondere, padre, non… 

In realtà non vorrei rispondere, perché è proprio la risposta a farmi paura. Il fatto è che non avrò un’altra vita, e non posso accettare, davvero non posso, di aver passato questi trent’anni e messo al mondo e cresciuto due figlie con una persona che credo di non aver mai amato. 

Non c’è soluzione... 

Sento la mia vita sbagliata e guasta, e non c’è soluzione. Sento un enorme senso di colpa, pur non avendo mai sfiorato Matthias – e Dio sa quanto avrei voluto – e non c’è soluzione”. 


Poi tacque.


Lei tacque; e nei secondi seguenti l’unico suono nello spazio vuoto della chiesa fu la voce dell’organo che aveva appena iniziato a intonare Wenn wir in höchesten Nöten sein: Martha che si esercitava, banalmente. 

Don Palmieri, mentre si preparava a rispondere, ripensò al testo in modo quasi irriflesso, e capì subito perché. Si stupì, una volta di più, di come Bach fosse riuscito a infondere in quel brano prodigioso, fulmineo, di una bellezza ultraterrena, l’ansima soffocante di abissale angoscia e al tempo stesso il sapore caramellato di un’arresa malinconia e di una speranza dolce, saggia. Ora: l’angoscia, questa donna inginocchiata alla sua sinistra, la sentiva con chiarezza; stava adesso a lui, don Palmieri, farle intravedere i volti confortanti della speranza.

Iniziò dunque a parlarle dolcemente, scandendo le parole, dicendole anzitutto che capiva come si sentisse, che sentiva il peso che stava portando, il suo calvario personale, che percepiva il suo dolore interiore; e anche il Signore, certamente, lo percepiva, e le era vicino. 

Lei ascoltava, e ascoltando piangeva piano. 

Lui pensava a cosa dirle e come, per confortarla quanto più possibile. Per qualche secondo infinito fu travolto da un vortice di pensieri.

Avrebbe potuto dirle che questa sua incapacità di staccarsi dalla sua famiglia, di continuare a essere parte di quella famiglia nonostante tutto, lasciava intravedere qualcos’altro, attraverso le crepe; forse, concentrata su Matthias, aveva dimenticato quanto quella routine, e quelle tre persone che ora percepiva a volte persino come estranee, fossero in realtà una parte importante di lei, più di quanto pensasse o, al momento, potesse sentire.

Avrebbe potuto dirle che, in fondo, molto del peso che sentiva derivava dal fatto che aveva immaginato, pregustato forse, una possibile vita nuova con Matthias, eppure tutto, in lei, aveva fino a quel momento scartato quella soluzione; proprio per questo si sentiva confinata in quel terreno, al momento ostile, dato dalla sua casa e dalla sua famiglia, escludendo oltretutto Dio da quell’equazione traballante. 

Avrebbe potuto dirle che non metteva in dubbio che il suo sentimento per Matthias fosse vero e profondo, anche se recente: questo gli pareva chiaro. Ma, al tempo stesso, la possibilità di un’alternativa, di una vita con Matthias, lei di fatto non l’aveva scelta, mentre aveva scelto, giorno dopo giorno, la sua vita attuale. Standoci male, certo, ma questa continuava a essere la sua scelta.

Avrebbe anche potuto dirle di non vedere più Matthias. Se fosse riuscita in questo, allora – pian piano – avrebbe rivisto nuovamente la sua vita per quel che era, con i suoi vuoti e i suoi pieni, la sua quotidianità che poteva rivelarsi anche confortevole, un rifugio, l’affetto per il marito e l’amore per le sue figlie, sentimenti profondi che erano il frutto di anni di condivisione, di infiniti giorni di scontri, di battaglie combattute e vinte insieme, di un progetto di vita, di momenti attraversati a uno a uno; non perfetto, come del resto non lo è mai ogni progetto di vita, ma vissuto con intensità. 

Avrebbe potuto dirle tutto questo, ma non lo fece.

E non lo fece perché don Palmieri era come spaccato, a sua volta, e da uomo onesto qual era, tacque. Questo perché la sua coscienza di prete si trovava in contrasto (cosa piuttosto insolita, per lui) con quella dell’uomo che conosceva un poco le vie del mondo e dell’animo umano; indirettamente, in questo caso, ma tant’è. Sapeva bene, in quanto prete, che avrebbe dovuto indicarle con carità e fermezza l’unica via possibile, e fors’anche giusta, cioè smettere di vedere Matthias per salvare, così, il suo matrimonio; e del resto sapeva altrettanto bene che quella felicità che le faceva cantare il cuore, quella sensazione che la riempiva – di essere capita prima ancora di parlare, di sentire accettato e compreso il suo mondo interiore senza sforzo – non sarebbero state dimenticate: le cicatrici sarebbero rimaste in lei per sempre, e per sempre sarebbero state fonte di dolore. Quella donna avrebbe forse salvato il suo matrimonio (era possibile, certo), ma il costo, semplicemente, sarebbe stata la sua felicità. Né più né meno. In fondo aveva detto bene lei stessa: non c’era soluzione. E non perché non ci fosse davvero, ma perché ogni soluzione portava con sé o infelicità o dolore. Dal punto in cui era, non c’era ritorno: aveva gustato il frutto, e ora stava nuda davanti a sé stessa.

Non disse quanto avrebbe potuto o dovuto dirle, dunque.

Le parole che scelse di dirle, invece, don Palmieri le ascoltò come fossero state pronunciate da un altro: parlavano di cercare conforto nella preghiera, di adoperarsi per ritrovare, giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, un senso e una motivazione nelle piccole vicende domestiche, magari investendo di più nel rapporto con le figlie, che amava. Credendoci, ma senza troppa speranza, citò allora alla donna il testo del corale che li accompagnava nuovamente, come un sottofondo inconsapevole: ed ecco che quelle parole, inaspettatamente, sorprendentemente, agirono invece sull’animo della donna come un balsamo, dandole un briciolo di conforto, una scintilla di serenità: lo vide dai suoi occhi. Forse il senso di abbraccio e di comprensione, forse l’essersi liberata se non altro dal peso del silenzio e del pensato tradimento, forse il sentirsi parte di una comunità afflitta e orante, pensò don Palmieri, affiancata dalla presenza di Dio anche in quel momento, la fecero sentire meno sola e meno disperata:


  1. Quando ci sentiamo oppressi da un’angoscia enorme 

e non sappiamo dove andare 

e non troviamo né aiuto, né consiglio,

preoccupandoci continuamente,

  1. ecco, questa è la nostra unica consolazione: 

che tutti insieme 

Ti invochiamo, o Dio fedele,

che ci liberi da angosce e preoccupazioni.


6. Non guardare al nostro grande peccato,

assolvici mediante la Tua grazia,
rimanici accanto nella nostra pochezza;

liberaci, alla fine, da ogni male.


La donna, finito di ascoltare il testo, non attese la formula di assoluzione: curiosamente, distrattamente. 

Qualcosa le era scattato dentro, all’improvviso. 

Agì d’impulso, come in trance, come guidata da una forza invisibile. 

Agì mormorando “al nostro grande peccato” mentre si alzava, facendosi il segno di croce soprappensiero e asciugandosi le lacrime, guardando, stranamente, come stesse vedendo un futuro che solo a lei era dato scorgere.

Agì abbozzando un inchino sgraziato all’altare e fece nuovamente cigolare la porta mentre usciva frettolosamente nel vento sferzante e nella città fredda che si stava via via ammantando di una coltre di neve. 

Una chiusa inattesa.


Il reverendo Mark Palmieri rimase in quella parrocchia per parecchi anni ancora: di quella donna, che non rivide mai, non seppe più nulla. Ma era tale il senso interrogativo che gli aveva lasciato che ne parlò, una sera poco dopo l’Epifania, persino con Nathan, quasi un anno dopo, mentre stavano discutendo di alcuni aspetti della vita matrimoniale. E così, un Benedictus di Lasso a due voci sullo sfondo e sul finire di un altro giorno innevato e breve, fecero rivivere per una mezz’ora quella vicenda, o meglio quel poco che Mark sapeva e poteva dire, per l’ultima volta. 

Delle loro voci si affievolì il suono, nel tempo; ma il pensiero di quella donna, della sua storia così uguale a tante altre eppur così diversa, della sua angoscia e della scelta che infine fece – se davvero ne fece una – tornava sulla città di tanto in tanto, come sospinto dalla brezza leggera che soffiava verso Chesapeake Bay.


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