A due voci - secondo capitolo
Giampiero Assumma, 1 Moscow, 2022

A due voci - secondo capitolo

diStefano Patuzzi

“Care sorelle, cari fratelli!”. 

La voce è calda, entusiasta, colma di una gioia sincera.

“Eccoci riuniti qui insieme, una volta ancora, nella ricorrenza lieta del Natale: il giorno da cui tutto ebbe inizio”. 

Pausa. 

Un sorriso, sentito e timido, dolce, scoccato in direzione dei fedeli; lo sguardo – sempre sorridendo – prima a loro, poi al leggio. Il torso ruota leggermente in senso antiorario e il reverendo si prepara a tendere indietro l’indice del braccio sinistro. 

“L’altare addobbato che vedete qui alle mie spalle, il Bambino sotto la mensa, le candele, i ceri, tutti i segni che vedete oggi intorno a voi ci parlano in molti modi diversi di questa festa luminosa di gioia”. 

Il persistente ronzio placido del riscaldamento, in sottofondo, ispira fiducia, crea e nutre uno sfumato senso di attesa; il caldo amico, secco, investe i fedeli come stessero navigando di bolina stretta ai tropici, e questo infonde in chi è presente un senso di quieta serenità, di pace. 

“Lo ricordava, con espressioni toccanti, il salmo che abbiamo udito questa notte: 


Gioiscano i cieli, esulti la Terra,

risuoni il mare e quanto racchiude;

sia in festa la campagna e quanto contiene,

acclamino tutti gli alberi della foresta!” 


Le parole fragranti, venerabili della Scrittura si allargano nell’abside e nei due altari laterali, tracimano nella navata principale per sciabordare poi verso la cantoria, su su fino alle vetrate e alle volte. 

“Questa mattina – anche per tentare di togliere un po’ di potere al pranzo che vi aspetta” (un altro sorriso misurato) “ai regali, alla frenesia che, ormai lo sapete, solo in parte riesco a comprendere di questi giorni di fine anno – vorrei condividere con voi una manciata di riflessioni tratte dalle letture e dal canto splendido che, grazie al nostro coro e ad Allen che lo prepara e lo guida settimana dopo settimana (li indica), abbiamo potuto sentire all’inizio della celebrazione: un canto gregoriano di straordinaria antichità, già presente – pensate – in alcuni manoscritti risalenti al decimo secolo, creati in monasteri che ai giorni nostri si trovano tra le montagne della Francia e della Svizzera; un introito che ha solcato insomma un millennio della storia della Chiesa e che per secoli – anno dopo anno, in tutta Europa e poi qui da noi – ha segnato l’inizio della messa del giorno di Natale”. 

Sguardi interessati al coro e colli protesi da parte di alcuni fedeli; corpi leggermente inclinati di lato in posizione di ascolto; senso di attesa; trepidazione. 

“Il suo testo latino, tratto da Isaia e dai Salmi, è semplice e di grande ricchezza: di attualità. Vediamone insieme alcuni passaggi”. 

Pausa studiata di alcuni secondi. Sguardo al leggio poi ancora sui fedeli, panoramicamente, lentamente, prima sulla bancata di destra, poi su quella di sinistra, in modo del tutto fluido.

“L’inizio, anzitutto: «Puer natus est nobis» / «Un bimbo ci è nato». Quale immagine, come principio, più familiare, più domestica e, a suo modo, intima? Un bimbo – l’immagine tenerissima della vita che nasce e che prosegue; un’incarnazione, letteralmente, di una nuova generazione, del futuro della Storia – che è nato a noi, per noi, come il testo ci fa capire meglio subito dopo: «et filius datus est nobis» / «e un figlio ci è dato». Badate: il Bimbo che è nato è anche un figlio, per l’umanità tutta, un dono”. 

Un fascio di sguardi, compatto e plurimo, partecipe, rivolto al Bambino sotto l’altare, quasi a volerlo introiettare. Le luci inondano la chiesa e osservano partecipi e occhiute, dall’alto.

“E si tratta di un’espressione del tutto speciale, lo abbiamo sentito nella seconda lettura:


Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? E ancora: «Io sarò per lui Padre ed egli sarà per me Figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio»”.


Le parole fragranti, venerabili della Scrittura si allargano di nuovo nell’abside e nei due altari laterali, tracimano nella navata principale per sciabordare poi verso la cantoria, su su fino alle vetrate e alle volte.

“Fin dall’inizio, dunque, questo canto antico celebra la venuta di Gesù come bambino e in quanto figlio. ‘Ma quale venuta?’, viene da chiedersi. La venuta una volta sola, una volta per tutte, duemila anni fa? Quella di cui abbiamo appena sentito nel Vangelo di Giovanni?


“E il Verbo si fece carne

e venne ad abitare in mezzo a noi […]”.


Senso di prevedibile certezza infuso dalla domanda retorica; vettore conosciuto; pregustazione serena, compiaciuta persino, da parte dei fedeli; qualche occhiata d’intesa scambiata reciprocamente, fra genitori e figli, soprattutto, a beneficio dei primi. 

“No di certo, lo immaginate tutti: anche la venuta ogni anno, nella stagione più buia e fredda, ogni 25 dicembre, a ricordarci le tante ciclicità delle nostre vite, le cose buone e le cose meno buone che si rincorrono e ristagnano e ritornano; e al tempo stesso la Sua venuta all’interno delle nostre vite, nella vita di ciascuno di noi. Anzi, di tutti coloro che vogliano accoglierlo, per la prima volta o di nuovo, anno dopo anno, ovunque si trovino nel mondo”. 

Alcuni sguardi intensi vengono scoccati da parte dei fedeli; rughe glabellari diseguali vanno scolpendosi sulle fronti più inquiete, riflessi visibili dei moti del cuore; pensieri fulminei, confusi ad alcune delle notizie recenti, lette nei quotidiani dai primi del mese in avanti, su zone del mondo sufficientemente lontane. Senso di sollievo, per differenza, per senso di distanza, per alterità: uno scampato pericolo, un sospiro di sollievo interiore; e tuttavia tinto di uno screziato, sbiadito senso di colpa. 

“Per inciso, questo mi riporta per un attimo, e spontaneamente, all’Avvento appena concluso, che troppo spesso viene ridotto a una specie di semplice, persino banale tempo d’attesa del Natale: ma, lo sapete, è ben altro. È difatti il periodo che si ripete e si rinnova eternamente, anno dopo anno, e che porta a compimento una promessa; e, al tempo stesso, è un messaggio di speranza rinnovata che ogni Natale porta con sé e dona al mondo”.

Conclusione dell’arcata del ragionamento e senso di stasi; quiete; sguardi appagati; qualche impercettibile segno d’assenso; percepibile sensazione di essere infine a casa; alcune menti corrono al pranzo, altre vagano altrove, dozzine di occhi scrutano la metà dei quadranti.

“Prima di concludere questa breve riflessione vorrei farvi però una domanda scomoda”.

Un colpo di teatro, uno sgradevole guizzo inatteso, o forse no; volano in arie scintille di un senso di fastidio da parte di alcuni, come se qualcuno avesse strisciato la mano sulle lettere corsive nere e ampie, tracciate con inchiostro fresco, su una pagina avoriata, o avesse fatto lungamente gracchiare le unghie su una lavagna d’ardesia d’altri tempi. Il viso del reverendo Palmieri quieto e serio, interrogativo. 

“Una domanda che spesso non trova voce – forse per disagio, persino paura, timore di giudizio, chissà cos’altro – ma che credo in molti si pongano, nella pause delle loro vite, nelle loro sere ansiose, nel buio di certi giorni, su ciò che percepiscono come il silenzio della voce di Dio”. 

È palpabile nell’aria una tensione che cresce; in molti avrebbero fatto volentieri a meno di questa appendice: il senso di festa in pericolo, compromesso o tradito, il sogno fanciullesco scalfito o infranto, l’irreale bolla di tempo scoppiata d’improvviso.

“La domanda è: ‘Ha ancora senso, oggi, all’inizio del ventunesimo secolo, celebrare il Natale? Ha senso, per noi, qui a Baltimore? Ha senso in questa nostra parrocchia?’ Vedete, il Natale ha una forza e una presenza talmente forti che la risposta potrebbe sembrare facile, scontata”. 

Recupero parziale e collettivo delle speranze: una virata attraverso il letto del vento. 

“È ovunque, anche dove non dovrebbe: nelle case – certamente – nelle chiese, nelle strade, nei cinema, nelle librerie, nei supermercati, nei teatri, sui manifesti, nei negozi, in televisione e in Internet. Ovunque. Ma cosa c’è davvero dietro a tutto questo e al fondo di tutto questo? Che cosa c’è al di là di questi aspetti, molti dei quali, come sapete, lascio a voi?” 

Altro pacato sorriso d’intesa ai fedeli, ricambiato in modo un po’ forzato perché misto a un sottile, persino sinistro e innaturale senso di inquietudine e disagio. 

“Se guardate bene, in profondità, al fondo del Natale sta un senso di enorme conforto, di calore”. 

A casa, di nuovo; sensazione di comodità e sapore di abitudine; la mente a spazi noti, un divano morbido, un camino che crepita; nella navata vento stabile e caldo, in poppa. 

“Se c’è un messaggio chiaro che il Natale ci porta – se ci porta un regalo, io credo il più prezioso – è che la solitudine perde forza in quanto la sua oscurità è squarciata e vinta dalla luce del Natale”. 

Respiri lunghi, nelle tre navate: più di uno sguardo tende al sereno; un’invisibile mano pietosa, amorevole, ha ripianato in un fiat le molte rughe glabellari. 

“Anche quelle sorelle e quei fratelli meno fortunati che, in questo periodo dell’anno, sono soli là fuori (e, credetemi, sono tante e tanti, anche dove non pensereste, anche in modi che non immaginereste, anche con un’angoscia e un’intensità che non supporreste) se riusciranno ad accogliere davvero il Natale si sentiranno un po’ meno soli: la presenza del Bambino li rinfrancherà e darà loro conforto”. 

Senso di sollievo, ancora, tra i fedeli, di nuovo misto a qualche striatura nerastra di senso di colpa; è tangibile una curiosa apprensione, singolare si potrebbe dire: qualche respiro si accorcia in affanno. 

“Un conforto, badate – visto che queste festività hanno una forza centrifuga così grande – che non si esaurisce con la festività dell’Epifania, ma che prosegue nella vita di tutti i giorni, in ogni ora, in ogni minuto, nei momenti luminosi di gioia e in quelli, bui, di preoccupazione, di doloroso rimpianto e sofferenza. È un conforto profondo, forte, vero. È un conforto antico e reso ancor più forte da secoli di storia della Chiesa, da secoli di testimoni di cui abbiamo memoria e, molto più numerosi, di testimoni di cui non abbiamo più alcun ricordo”. 

Memorie fuggevoli di persone care, ricordi intimi di rimbalzo, respiri profondi a esorcizzare lo spiffero gelido del senso di passato e di morte che volteggia sinistramente, per un istante, sulle navate gremite.

“Ecco perché potremmo dire che il testo del Puer natus – quando prosegue con «et vocabitur nomen eius, magni consilii Angelus» / «e sarà chiamato il suo nome, Messaggero del gran consiglio» – si riferisca, in un modo persino toccante e poeticamente allusivo, alla venuta di Dio sulla terra attraverso Gesù, che si fece dunque messaggero e incarnazione di questo grande mistero di vicinanza e di unione fra Dio e l’uomo”. 

Qualche sguardo al Bambino sotto la mensa, molti sguardi fissi sul pulpito: due campi di energia che si incrociano e contrappongono. 

“Questo canto antico e venerabile, cari fratelli e sorelle, ci parla del fatto che non siamo soli. Non siamo soli. Che per quanto soli possiamo sentirci – nelle vie del mondo, in viaggio, nei nostri luoghi di lavoro, negli ospedali o nelle carceri, persino nelle nostre case, a volte, o nel profondo della nostra anima – se abbiamo accolto davvero il Bambino, non a parole, ma nel profondo dei nostri cuori, non lo siamo mai, non dovremmo esserlo mai. Non a caso Gesù infatti è l’Emmanuele: il ‘Dio-con-noi’”.


La lettura di questo articolo è riservata agli abbonati
ABBONATI SUBITO!
Hai già un abbonamento?
clicca qui per effettuare il login.

Commenti

Lascia il tuo commento

Codice di verifica


Invia

Sostienici