A due voci - terzo capitolo
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A due voci - terzo capitolo

diStefano Patuzzi

“… vorrei che tu ragionassi con me su una cosa, Jacob. Sei un uomo, ormai, hai ventisei anni, e oggi mi arrivi qui con una domanda (traccia nell’aria con la mano destra il punto interrogativo); una domanda ben precisa e ben pensata che, se non capisco male, ha a che fare con due aspetti (due dita della mano destra verso il soffitto): da un lato con la tua inclinazione allo studio e il desiderio di capire come stanno davvero le cose, dall’altro con la vita che vivi ogni giorno, con tutte le sue contraddizioni, le frustrazioni, i pasticci e le situazioni impreviste (la sinistra rotea nell’aria), che non ci è dato di indovinare, dunque anche con le relazioni che costruiamo via via, con le azioni e le scelte che siamo chiamati a fare (continua a roteare), e sul ruolo, forse anche sul peso che questi due aspetti dovrebbero avere nella tua vita. Si tratta di una domanda giusta: fondamentale, anzi (dito indice alzato, a monito). Del resto fin dal tuo bar mitzvah mi hai posto delle domande; tante domande, negli anni; domande valide. Tutto questo è un bene”.


Ora, va detto con chiarezza che vedere il rabbino Kaplan all’opera era uno spettacolo.

Uno: capitava che la velocità e la densità del ragionamento cambiassero all’istante, fondendosi in un singolare spazio-tempo.

Due: per chi lo conosceva bene, era palpabile l’esistenza del punto d’arrivo fin dal primo momento. Non che gli altri lo vedessero, ma c’era.

Tre: uomo solitamente pacato, quando si accalorava gesticolava in modo quasi comico.

Quattro: guardava solo di rado negli occhi, mentre argomentava; e non per timidezza o altro, no no: era come se visualizzasse i concetti, come se oggetti noti a lui solo e solo a lui visibili, dalle forme più strane e mirabolanti, si materializzassero man mano davanti ai suoi occhi. Si potrebbe dire che ragionava per immagini, o che i concetti gli si presentassero sotto forma di immagini, ecco.

Quinto: pacato, sì, ma aveva un’innata tendenza all’esagerazione: lo vedremo.

Sesto: c’era da fidarsi.

Settimo: tendeva a parlare troppo, talvolta, ma glielo si perdonava.

Procediamo.


“A ogni modo, oggi arrivi qui con un quesito e questo quesito è come se ti bruciasse dentro, credo – mi hai chiamato apposta ieri l’altro per anticiparmelo a caldo (la destra mima la cornetta del telefono). A quanto ho capito sei capitato in una situazione in cui quello che credi giusto ha cozzato – è così? (occhi negli occhi con Jacob, lo sguardo seriamente interrogativo) – con quanto ti sei trovato a vivere, nel clima che stai respirando al lavoro, coi colleghi. E questo contrasto, questa sorta di contraddizione non ti fa sentire in equilibrio; ti rode, si potrebbe forse dire (la mano destra come fosse una trivella, come a scavare – esagerato, appunto – nella nuda terra). 

Allora farei in questo modo: cerchiamo in uno dei testi della nostra tradizione un aiuto, una guida (grande sorriso stampato sul viso, occhi verso Jacob). La vita ogni tanto sembra uscire dai binari, ed è proprio in quel momento che dobbiamo tentare di reagire. Possiamo anche non farlo, certo, ma questo in genere non migliora le cose. Sorrido, Jacob, perché so che è così…

A ogni modo. Ho pensato alla tua domanda e, per aiutarti a fare un po’ di chiarezza, vorrei che commentassimo insieme la seconda parte della decima mishnah dal primo capitolo degli Avot. Tu sai bene che i Pirqé Avot, i ‘Capitoli dei Padri’, sono un trattato della Mishnah, così come sai che non hanno commento: non c’è nel Talmud un trattato corrispondente. Potrebbe sembrare una stranezza, a prima vista, ma tant’è (la tentazione sarebbe quella di commentare questa sorta di stranezza, ma si trattiene con un po’ di sforzo, quasi visibile; tace un attimo). Andiamo oltre (“scampato pericolo”, pensa Jacob). Oggi io direi di leggere e interpretare brevemente il testo con le nostre forze, prima, e poi di farsi aiutare da un grande commentatore, d’accordo? Sì? Bene. Sto parlando troppo, però (“non esattamente una novità”, pensa Jacob). Leggi il testo, intanto”.

“Shema‘yà diceva: «Ama il lavoro, odia la grandezza e non desiderare l’amicizia delle autorità»”.

“Ottimo. Anzitutto dobbiamo capire bene il testo della terza parte di questa mishnah (indovinate? la mano destra che fa 3), perché sai fin troppo bene che ogni traduzione ci fa perdere sempre qualche frammento dell’intenzione originaria; a volte frammenti importanti, a volte – se si è fortunati: incredibile, ma qualche volta capita (ride) – meno. Chi sono dunque queste autorità? Cosa vedi da un primo sguardo a questo testo?”.

“Allora, allora… Dunque. Intanto direi che la Mishnah sta parlando del mio problema. Come Le dicevo, il mio problema ha a che fare con una smania di vicinanza alle autorità che attorno a me – al lavoro – è un po’ ovunque, che viene quasi data per scontata, che si respira nell’aria e che invece a me sta stretta. Parecchio. Questa mishnah sembra dare un’indicazione su questo aspetto”.

“Bene, e che cosa ci dice l’ebraico, intanto, a questo proposito? Di che tipo di autorità si sta parlando, qui?”.

“Ecco, dice rashut: il testo sta parlando di qualcuno che viene per primo, che ha una posizione preminente nella società, forse una posizione di potere, anche? In effetti mi verrebbe in mente per vicinanza rosh, ‘capo’, ‘testa’, che però è scritto con un’alef. C’entra? Qual è la radice di rashut?”.

“Bravo, ci sei andato vicino (la destra oscilla un paio di volte, un aeroplanino instabile: quasi l’immaginario, minuscolo pilota fosse un po’ ebbro). Non c’è accordo completo fra gli studiosi, certo (la sinistra fa un gesto a ventaglio, a dire: ci mancherebbe), ma molti ritengono che derivi proprio da rosh e che dunque sia una forma abbreviata scritta senza alef; certamente rimanda all’idea di ‘autorizzare’, a ogni modo. Dunque?”.

“Certo: uno è potente – è ‘alla testa’: viene prima degli altri – e ha autorità, intende qui la Mishnah, perché può autorizzare un altro a fare o non fare qualcosa. Ha senso”.

“Sono d’accordo: ha senso. Dunque qual è il primo insegnamento da questo testo?”.

“Che l’amicizia delle autorità, la troppa vicinanza col potere di chi può autorizzare altri a fare o non fare ha un suo costo: i maestri della Mishnah ci avvertono che costituisce un pericolo e dobbiamo tentare di evitarla, direi”.

“È così, Jacob: esattamente come dici (la destra a pugno accarezza delicamente la superficie della scrivania, con soddisfazione, tracciando una traiettoria che ricorda curiosamente un alphorn). Andiamo allora a vedere cosa ci dice il commentatore di cui ti parlavo prima e che ho scelto per te: è adatto. Si tratta di Rabbenu Yonah, un maestro catalano vissuto nel 13° secolo. Questa è la traduzione del suo commento, tieni”. 

“Grazie. Un attimo, cerco la pagina. Un secondo. È qui, ecco: «e una volta che egli accetta il giogo del re, la sua fine è di rompere il giogo del regno dei Cieli e di non osservare questo precetto». Un’immagine chiara, direi, persino suggestiva dato che si confrontano due re e due regni. Dunque, in sostanza, dice di non cercare l’apprezzamento di coloro che hanno il potere, perché alla fin fine si darà la precedenza agli aspetti pratici legati a questo e si metterà in un angolo l’osservanza religiosa, la morale. Poi prosegue e dice che «alla fine, lo priveranno dei suoi beni senza alcun guadagno, in quanto si lasciano avvicinare da qualcuno solo per i loro scopi». Qui il commentatore credo voglia dire che, una volta che avranno usato quella persona, gli si rivolteranno contro, perché il loro scopo era solo quello di avvantaggiare sé stessi”.

Yofi, Jacob (l’ebraico tradisce la soddisfazione). È così, concordo (gran sorriso, compiaciuto). Condivido la tua interpretazione di questo commento, ma vorrei aggiungere una riflessione su un particolare importante (ci siamo: variazione dello spazio-tempo: in un secondo tutto accelera). Hai fatto attenzione al modo in cui la Mishnah parla di queste persone? Spesso un’informazione importante è celata nei dettagli, lo sai bene; o persino nei silenzi del testo. Ecco perché dobbiamo essere in ascolto e interrogarlo; dobbiamo porre le domande giuste: è nostro dovere fare le domande giuste e tu, negli anni, ne hai fatte molte. La Mishnah qui ne parla come di un gruppo, come un insieme indistinto di persone, ci hai badato? Usa la parola rashut, ‘autorità’, lo abbiamo visto prima. Dunque il testo dà per scontato, in un modo sottile, probabilmente perché confida nell’intelligenza del lettore, che forse non si tratta delle persone in sé. Forse quelle persone avevano in origine una natura differente. Forse non usavano altre persone per raggiungere i loro scopi. Ma a un certo punto o gradualmente, non sappiamo, così come non sappiamo per quale ragione, decisero di frequentare i corridoi del potere, di entrare in quella sorta di strana competizione che porta a trascorrere tempo con le autorità e poi, in seguito, a voler far parte di quella cerchia, come se nel frattempo fosse diventata un’ossessione o una droga, una dipendenza, come se non fosse più possibile farne a meno. 

Pensaci. 

Avrai notato anche tu, negli anni, come la nostra mente impieghi un poco per abituarsi all’idea che una carica importante (pensa a un presidente o a un’altra figura di spicco) sia ricoperta da una determinata persona (pausa teatrale: gli piace il parallelo originale, il triplo carpiato dalla sottile traiettoria talmudica). Non appena abbiamo la notizia, la persona e la carica sono ancora entità distinte che si sovrappongono solo in parte. Nei giorni e nelle settimane che seguono, a poco a poco, gradualmente, questa idea si sedimenta, viene accettata e digerita dalla nostra mente, e la carica e la persona finiscono per coincidere. Ecco: tutto questo processo è in qualche modo riassunto nella parola rashut. 

Un mio amico prete che ha studiato a Roma credo direbbe «senatores boni viri, senatus mala bestia», «i senatori sono uomini perbene, il senato una bestia cattiva»: e si potrebbe dire anche così, in effetti. A pensarci, credo che i Romani – che capivano poco di spiritualità tanto quanto delle dinamiche di potere capivano parecchio – abbiano riassunto bene ciò che sto cercando di dire. D’accordo: per oggi basta così, direi”. 


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