Antonello da Messina, lo zen e lo sguardo sul mondo.
Antonello Da Messina, Ritratto di un uomo - Il condottiero, Museo del Louvre, Foto di Elio Scarciglia

Antonello da Messina, lo zen e lo sguardo sul mondo.

diVincenzo Crosio

All’interno del vasto e molteplice fenomeno (molteplice perché ampiamente regionale e persino locale) del Rinascimento pittorico italiano, colpisce una linea di contorno non sempre messa ben in luce dalla critica d’arte. Presupponiamo (è una presupposizione, ma che ha i suoi elementi di forza) perché la teoria estetica non è giunta in quel punto in cui sguardo (anschauung), fenomenologia  ed estetica della percezione, trovi il suo asse di congiunzione, il suo cardine evocativo per cui ciò che definiamo esterno/interno, oggetto/soggetto, non venga collocato dentro il campo di esperienza dell’umano che secondo la fenomenologia buddhista viene definito campo di esperienza del  Buddha, quel ken butsu che solo la grande inchiesta filosofica del maestro Dogen , saprà mettere a fuoco dentro la più ampia tradizione delle scuole epistemologiche buddhiste.”Tutti i Buddha dimorano nel meraviglioso regno del Dharma, vedendo chiaramente ogni cosa senza lasciare mai alcuna traccia. Chiunque ne faccia la sua dimora, non distingue più tra soggetto e oggetto. In quel momento preciso ogni cosa dell’universo- la terra, l’erba, gli alberi,i muri, le tegole, i sassi- sono manifestazioni del Risveglio e coloro nei quali questa riverbera  realizzano al tempo stesso il Risveglio inconsciamente”.Così nello Shushogi al paragrafo 17 viene riportato il pensiero di Dogen. Che è l’esatta posizione di Merlau-Ponty, di Rudolph Arnheim, di Heidegger, di R.Guardini il quale inaugura- a mio parere- questa visione duplice, simmetrica di chi guarda e di cosa è guardato, nel senso dello sguardo divino e umano sul mondo, dunque all’interno di una estetica teologica che rifonda , rinnova e ricodifica il tentativo dei grandi autori di farsi interpreti di questa duplopìa, duplicità dello sguardo in un unico campo universale. Scrive in Fede, religione, esperienza, alla pag.146, R. Guardini :” L’atto essenziale dell’occhio consiste nell’afferrare l’autentico che appare nei dati immediati”. E ancora Rudolf Arnheim in Arte e percezione visiva alla pagina 2: “Nessun oggetto viene percepito come unico o isolato dal resto. Veder qualcosa significa assegnargli il suo posto nel tutto: una collocazione nello spazio, una valutazione della sua dimensione, la chiarezza, la distanza”. Il verbo Kan di kanji zai bosatu, verso iniziale del Sutra della grande perfetta Sapienza, vuol dire proprio questo: Guarda bene, che il tuo sguardo sappia vedere bene questo qui. Che tutta la realtà non è che Segno vuoto. L’autentica visione del “questo qui che appare” , del tatha gata, è autenticamente visto come espressione del Dharma. E’ un campo di esperienza  del campo di espressione della natura autentica di Buddha, del suo essere espressione di ogni altro Sé. O come dice Dogen, è ogni tempo esistente dell’intero Sé. E’ quel punto, quell’asse evocativo che introduce all’estetica del  vuoto. Dice Roland Barthes a questo proposito in La grana della voce a pag.113: “Pensiero radicalmente nuovo dell’assenza di centro: città dal centro vuoto, abitazioni senza focolare e ciò che segna, nella stessa scrittura del testo, l’ideogramma MU,  il vuoto. Scossa del senso, dilaniato, estenuato sino al suo insostituibile vuoto, senza che l’oggetto cessi di essere significante, desiderabile. La scrittura insomma, è a suo modo, un Satori: il satori, l’evento zen, è un sisma più o meno forte che fa vacillare la conoscenza, il soggetto: opera un vuoto di parola”.

 Lasciamo alle parole di un filosofo giapponese della Scuola di Kyoto,Tsujimura Kōhici descrivere questo punto: ” E tuttavia, cos’ha a che fare il pensiero di Heidegger con il buddhismo zen? Forse nulla, da parte di questo pensiero che è un pensiero del tutto indipendente. Ma, da parte nostra, abbiamo moltissimo a che fare con questo pensiero. Qui dobbiamo limitarci a menzionare solo qualcosa del notevole rapporto tra il pensiero di Heidegger e il nostro buddhismo zen: a proposito dell’«albero in fiore», di cui una volta ha parlato Heidegger. Lì, l’albero è in fiore. Heidegger così parla di questa semplice cosa: «Stiamo davanti ad un albero in fiore - e l’albero sta davanti a noi». Chiunque può dirlo. Poi, Heidegger descrive così questa situazione: «Ci poniamo di fronte ad un albero, davanti ad esso, e l’albero ci si presenta [davanti a noi]». Già appare la singolarità del suo pensiero: abitualmente, in tedesco si dice “noi ci (= a noi, dativo) rappresentiamo [stellen uns … vor] un albero”; Heidegger dice invece «(Noi) ci (= noi, accusativo) poniamo di fronte [stellen uns … gegenüber] ad un albero, davanti ad esso». Cosa accade in questa descrizione? Forse nient’altro che lo sparire del “noi” come soggetto che rappresenta e, nel contempo, dell’“albero” come oggetto rappresentato”. Dunque che nell’ampio alveo del Quattrocento e Cinquecento in pittura, in architettura e nella rappresentazione estetica in generale, gli artisti cerchino nella prospettiva simbolica e oltre la prospettiva simbolica, con accanimento, questa simmetria/asimmetria di uno sguardo divino sul mondo (weltanschauung) e di uno sguardo umano sul divino(anschauung), lo si deve essenzialmente ad una Teologia estetica, ad una estetica trascendentale perseguita con estrema ratio, in ogni particolare, in una teoria della rappresentazione che inizia con la cosiddetta prospectiva pingendi di Piero della Francesca e che finisce nella maniera dirompente ogni squadrato simbolico di Michelangelo Buonarroti. Ma nel mezzo di questa spasmodica ricerca di senso, all’italiana, al ritorno di una variegata prisca Teologia neoplatonica e antico-neo  testamentaria, v’è una pratica pittorica che mette insieme - alla corte prima di Renato d’Angiò e poi di Alfonso d’Aragona-, una via pittorica che è spagnola-borgognona-napoletana-fiamminga che ricerca nell’emblema figurale quel che stiamo dicendo. Una rivoluzione dentro la rivoluzione segnata dalla figura epica e geniale allo stesso tempo di Antonello da Messina(1430-1479). Cresciuto alla scuola fiamminga del Colantonio a Napoli, la sua sensibilità alla fotografia realista e trascendentale propria dei fiamminghi, diventa sensibilità alla rappresentazione dello sguardo e del dimensionamento del corporeo dentro una accentuazione della trasparenza e del riquadro unica nel suo genere, come attraverso una lente ottica che deformando lo spazio ne rende accessibile il transfigurato, desunta quest’ultima dalla frequentazione del grande Barthélemy d’Eyck, di Petrus Christus,di J. Fouquet, di E. Charonton. Che dentro questa ricerca ottica ci sia di tutta evidenza il lavoro teorico e pratico della costruzione di lenti e di occhiali proprio degli Olandesi e dei Fiamminghi, rende credibile questa affermazione, già di per sé manifesta nella scelta della visibilità teologica della rappresentazione del Corpo di Cristo, quella dei santi e soprattutto della Madonna, vero squisito portrait di ogni altra donna. Si presuppone sempre in Antonello uno sguardo che vede dentro il quadro e fuori del quadro. Come nel suo celebre Autoritratto, ora alla National Gallery di Londra, e nella  Vergine Annunziata , nella galleria nazionale a Palermo. Ma è in tutta l’opera che si dispiega questo manifesto della Pura visione, dalla Madonna Salting – di una bellezza infinita, tutta una sfera conica ruotante su se stessa, vero manifesto ideologico di questa Pura visione del mondo e dunque dello Zen in Europa- al san Gerolamo nello studio, alla Crocifissione, a quel capolavoro assoluto che è il Cristo morto sorretto da un angelo, che obiettivamente è la riscrittura di un’Altra teologia. Di un'altra dimensione, completamente ultrareale e  di un essudato mistico nell’impostazione ottica. Se Piero della Francesca fa della pittura il manifesto ideologico, teorico della scatola cubica in cui iscrive il trionfo del corpo, Antonello fa l’operazione inversa, libera nell’intero riquadro pittorico la pura forma del  Segno, del visibile e dell’evento, qualunque esso sia. Un’aura di imparziale, oggettiva necessità delinea la sua estetica del divino e del trascendente, suo omologo umano nell’accadere. Qualcosa di simile farà solo Donatello col David, Michelangelo  nella Sepoltura del Cristo, - ultraterrena tela conservata nella National Gallery di Londra-, Leonardo ne  La Vergine delle rocce, Mantegna nella Morte della Vergine al Museo del Prado, il Palladio nel  Teatro olimpico a Vicenza   e quel capolavoro di arte convenzionale del ritratto che è Il sarto di G.B. Moroni alla National Gallery di Londra. Per rivedere una chiarezza stilistica, espositiva di tal fatta, bisognerà attendere il Ponte di Langlois di Vincent Van Gogh, l’opera di Cèzanne e Bonnard, il nostro G.Fattori,  Giorgio Morandi, Ben Shahn , E.Hopper, le sculture di Giacomo Manzù, le architetture sillabiche di W.Gropius, le pagine atonali di Schönberg. E infine la fotografia filmica di Antonioni e l’Akiro Kurosawa di Rashomon. Ma ciò di cui si parla si attinge anche ad altra fonte e sono similmente le pitture di Ajanta, il complesso architettonico dell’Alhambra, la Moschea di Damasco, la scalinata del tempio Pul-kuk-sa del sec.VIII d.C., la statua del Buddha nel tempio rupestre di Sokkulan, sempre dell’VIII sec., le architetture dei templi zen, le raffigurazioni fittili di Angkor, le immagini simmetriche dei bodhisatva Nikko e Gakko nel tempio Yakushi, la statua in legno di Miroku a Nara, gli affreschi conturbanti e allusivi di Sigiriya a Ceylon, l’arte del Gandhara, i riquadri seriali del portico e delle finestrature del tempio Zen di Fudenji a Bargone, vero manifesto della Visione attraverso il riquadro ottico. Pura spazialità di un interno e di un esterno, paesaggio e forma di un’architettura dello spazio che è anche uno spazio poetico e simbolico. Pura forma che è puro segno vuoto di un essente esistente unico e trascendentale. Collocato dentro uno spazio metafisico, come se la ricerca di una estetica pura e trascendentale, fosse nell’animo di uno spirito inquieto. Come pensava Bachelard, nella sua solitaria, quasi assurda meditazione filosofica: ”L’immensità si potrebbe definire con una categoria filosofica della reverie. La reverie, certo, si alimenta di spettacoli vari, ma per una sorta di spontanea inclinazione, contempla la grandezza. Tale contemplazione della grandezza poi  determina un atteggiamento tanto speciale, uno stato d’animo tanto particolare, che la reverie colloca il sognatore fuori del mondo circostante, davanti ad un mondo che reca il segno di un infinito”. Non è questo forse l’illuminazione Leopardiana, dello sguardo che guarda dentro il limite/oltre il limite, dietro la siepe dell’abitato, un orizzonte, che è linea di confine, bordure assiepata del desiderio di infinito? 



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