Immagini di guerra
Stefano Negri, Monaci birmani

Immagini di guerra

diElisabetta Baldisserotto

Dal 15 gennaio al 26 giugno 2022 il Museo di Villa Bassi ad Abano Terme ha ospitato la mostra Robert Capa. Fotografie oltre la guerra, a cura di Marco Minuz.

Robert Capa, nato nel 1913 a Budapest con il nome di Endre Ernö Friedmann, definito “il miglior fotoreporter di guerra del mondo”, mise l’esperienza bellica al centro della sua attività. Iniziò immortalando la guerra civile spagnola (1936-39), per proseguire con l’invasione della Cina da parte del Giappone (1938), la seconda guerra mondiale (1941-45), il primo conflitto arabo-israeliano (1948), e per finire con la prima guerra d’Indocina, durante la quale morì, ucciso da una mina antiuomo a soli quarant’anni (1954).

Sebbene la mostra di Abano esplori anche altre parti del lavoro di Capa (per esempio, i ritratti di personaggi celebri), la sua attualità sta nel fatto che viene proposta durante una guerra, quella tra Russia e Ucraina, che coinvolge indirettamente l’Europa.

La mostra ci induce a interrogarci sull’effetto che le immagini di guerra, diffuse dai media, hanno su noi spettatori lontani dai campi di battaglia. Interrogativi che si era già posta, e a cui aveva cercato di rispondere, Susan Sontang, nel suo saggio Davanti al dolore degli altri (2003).

Un importante interrogativo riguarda la veridicità delle immagini che arrivano nelle nostre case. Chi ci assicura che non siano manipolate o contraffatte, soprattutto nel caso in cui la stampa si fa portavoce della propaganda bellica?

Il dubbio sulla fedeltà alla realtà riguardò anche una delle foto di guerra più famose di Capa, quella del miliziano colpito a morte in Spagna, intitolata Il soldato che cade (1936). Ci fu chi sostenne che era stata costruita a tavolino, tanto sembrava impossibile riuscire a cogliere con impressionante immediatezza un miliziano lealista nel momento preciso in cui una pallottola nemica penetra nel suo corpo e lui comincia a crollare nel collasso della morte. Un’altra ipotesi sosteneva che la foto documentasse un’esercitazione svoltasi a poca distanza dalla prima linea. In ogni caso l’immagine fece il giro del mondo, come un’altra, presente anch’essa nella mostra di Abano, quella del caporal maggiore americano ucciso a Lipsia da un cecchino mentre posiziona una mitragliatrice su un balcone (1945).

Il contesto domestico, l’interno di una casa col pavimento di parquet, una poltroncina in legno curvato col sedile imbottito su cui è poggiato un elmetto, due finestre aperte sugli alberi e sul fiume Pleisse, il poggiolo con la ringhiera in ferro battuto, rendono l’immagine della morte (il soldato riverso sul parquet imbrattato di sangue) intima, e perfino bella. Sembra crudele scoprire la bellezza nelle foto di guerra, afferma Susan Sontag. Ma “le fotografie tendono a trasformare, quale che sia il loro soggetto; e sotto forma di immagine una cosa può apparire bella – o terrificante, insopportabile o tollerabile – come non è nella vita reale”.

Varie le reazioni emotive di noi spettatori alle fotografie di guerra. Secondo la Sontag: “Non si dovrebbe mai dare un «noi» per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri”. Davanti alle immagini di civili morti e di case in macerie, infatti, c’è chi prova orrore per la guerra e chi invece prova odio per il nemico. Chi sposta lo sguardo altrove per non soffermarsi sull’orrore e chi le guarda con una sorta di fascinazione voyeuristica, che testimonia che “l’amore per la crudeltà è connaturato all’essere umano quanto la compassione”. Pietà, disgusto, indignazione, curiosità, approvazione, terrore, senso di colpa, indifferenza sono tutte emozioni, per quanto diverse, se non opposte, possibili. Nessun reportage, pertanto, per crudo che fosse, è mai riuscito a fermare la guerra. Che immagini stomachevoli, strazianti, intollerabili, possano servire come terapia d’urto affinché l’umanità comprenda l’enormità e l’insensatezza della guerra, è un’illusione.

Entro il 1930, l’album fotografico dell’obiettore di coscienza Ernst Friedrich, Guerra alla guerra! aveva esaurito dieci edizioni in Germania ed era stato tradotto in molte lingue. Il film di Abel Gance, J’accuse è del 1938, eppure né l’uno né l’altro poterono nulla contro la seconda guerra mondiale. Come le foto di Robert Capa non impedirono le innumerevoli guerre che hanno insanguinato e continuano a insanguinare il mondo.

A che cosa servono, dunque, le immagini di guerra?

Oliviero Toscani, che usò la foto degli indumenti inzuppati di sangue di un soldato ucciso durante il conflitto in ex-Jugoslavia per una pubblicità della Benetton, affermava di averlo fatto in qualità di testimone del suo tempo, laddove non erano le immagini ad essere crude e scioccanti, ma la realtà che rappresentavano.

“Designare un inferno – dice Susan Sontag – non significa, ovviamente, dirci come liberare la gente da quell'inferno, come moderarne le fiamme. E tuttavia, sembra di per sé utile ampliare le nostre conoscenze e prendere atto di quanta sofferenza causata dalla malvagità umana esiste nel mondo che condividiamo con gli altri. Chi continua a essere sorpreso dall'esistenza della perversità, chi è disilluso (o addirittura incredulo) di fronte alle prove delle crudeltà raccapriccianti che a mani nude gli uomini sono capaci di commettere ai danni di altri esseri umani non ha raggiunto la maturità morale o psicologica.

Dopo una certa età, nessuno ha diritto a questo genere di innocenza, o di superficialità, a questo grado di ignoranza, o di amnesia (…) Quelle immagini dicono: Ecco ciò che gli esseri umani sono capaci di fare, ciò che – entusiasti e convinti d'essere nel giusto – possono prestarsi a fare. Non dimenticatelo”.

 

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