Simonetta Sambiase - Borea
Salvatore Ruggiu - Macaone

Simonetta Sambiase - Borea

diFernanda Ferraresso

Ci accoglie con una mareggiata, anche se la dimensione di quell’acqua è più simile allo spazio chiuso di un lago, mentre una burrasca lo agita, e le righe dei versi sono onde che si aprono, si spaccano, le parole sono natanti che si dibattono tra quelle onde impreviste, in cui esplode la vita. L’ultima raccolta di poesia di Simonetta Sambiase, è un’ azzurra tempesta è un giorno come un altro. Spesso, qua e là, lungo i territori, notturni anche di giorno, le partiture dei versi sono pittura di tempesta, un fortunale che si abbatte sulle nostre spiaggiate vite, tra i marosi della quotidianità a cui si interpongono le parole come chiuse, come una diga o un frangiflutti, dal primo all’ultimo testo di Borea, un viaggio edito per gesti e raccolto nella collana dei Granati di Terra d’ulivi- 2021. E non è facile per l’autrice, Simonetta Sambiase, mettere in riga la burrasca che ci coglie, durante il giorno, ma anche nei segni della notte. Lavoro-famiglia-problemi-attese-desideri-imprevisti-relazioni con gli altri, spesso solo una massa colorata senza un volto specifico, che configurano una lunga catena in noi, una fune di attracco per le nostre piccole imbarcazioni processate da procelle continue e impreviste. Anche la notte e l’altra sua ombra, di notte, prende aria, perde cuscini spegne i confini, e ci traghetta là, dove le abitudini che intrecciamo, con cui ci zavorriamo, non sono cime per assicurarci a un molo sicuro. Da sveglio, come credi di essere ogni mattino, di fatto non incontri nessuno, il mattino è il luogo di migrazione dove non ci si incontra non ci si libera non ci si riconosce/non ci si fiata. Il salvagente che Sambiase ci propone è la fertilità dei pensieri, come un credo di semi nato, posto tra un lunedì e il giorno seguente, e le acque delle maree sono specchi, in cui rinascere, nella baraonda che ogni giorno germina in terra, ma nello specchio ferme, in registrazioni osservabili anche se, oltre quella dimensione riflessiva, un continuo rincorrersi, tra il traffico e un io, che ha nome di figli, è la veste che lei e noi indossiamo. E ognuno è tutto, tutto è il corpo del nostro, persino il travestirci, il camuffarci, truccandoci, inconsapevoli di essere prede, di quella furia sempre in caccia di una voglia, quella fica succulenta e rossa, che s’illumina dei fari del desiderio, che corre come un pazzo, inconsapevole di ogni possibile impatto ed è la vita, nella sua organica caotica dimensione, dove siamo conficcati e  immersi. Già al mattino, freddo di pioggia che batte, sotto un vento sferzante, Borea, appunto, ti s’infila nella carne, un fiato che ti congela e ti pungola. Tu sei costretta a bruciare, fino al logoramento, fino allo sfinimento. Certo è la visione di una donna, permeante, trasversale, acuto un ago, quello dei suoi occhi, che con ogni parola scelta con cura, addirittura riplasmata, riconfigurata, sgela dalla furia di un nord frigorifero il sentire, dalla ghiacciaia congelante, il cocito dantesco, il fondo dell’inferno, smuove il lamento e il pianto, piantato nel fiume gelato dei pensieri, che si emoziona solo con eccessi, perché fiamma è anche il ghiaccio che ustiona. Ogni sguardo, procedendo in queste rive, è un passo, luogo che si propaga, lungo una terra che non ha limiti di nazione, piuttosto è la nozione di una disumanazione che coglie tutti quanti, palesando un desidero di profumi, come quel cumino pungente, una scintilla che svegli dal profondo torpore, dalla cecità, dallo stordimento di quelle mareggiate e continue tempeste, il nucleo, l’essenza di noi stessi, rilegando con un filo d’ascolto, sottile e penetrante, ciò che si è frazionato, fratturato, scomposto tra attese e perdite, tra falso e violenza, in una passione rovescia, che ci rovescia e squassa, in un continuo sisma delle connessioni.
Eppure Borea è anche Aquilone. Questo secondo suo aspetto, l’essere un vento che gioca, alto, in un cielo cristallino e soffia,  dentro di noi, dentro i nostri ciclici timori, può tradurci altri, in altri giorni senza confini di idoli, senza geografie egotiche, liberi, in uno spazio in cui siamo certamente immersi e ricco, ricco di straordinarietà, oltre che di transitorietà, che mai solitamente siamo pronti a cogliere. Ecco dunque la scena finale, centrale è un pilastro la scrittura, piantato nel marasma quotidiano mostra
i ferri interni della struttura.
All’ultimo canto la sirena/spegne il giorno/e fuoca e si muove/ di vita segretissima flussa/ una galassia nera di sterno/ si fa la strada/ tra costole di spine/ stanno tutti a giurare/ di non essersi mai smarriti/ né per cattiva sorte/ né per satellitare rotto/ assediati di morte/ ogni giorno si cade,/ in un buio di parole e carezze/ la rotta dell’andare/ spostare il dolore/ tagli, intermittenze, tempi/ di giorno che sarà notte/ dove a volte null’altro esiste.



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