Catabasi V
Gaspare Canino, Senza titolo

Catabasi V

diDiego Riccobene

Numen quod habitat simulacro


In perenne stato di questua verso una necessità che giustifichi il dettato, l’interrogazione sul segno mi conduce a differenziazioni necessarie. 

Differenzio ciò che è segno, scrittura, da ciò che è volontà di rappresentarsi estrisecamente, in prima istanza.

Se il linguaggio è davvero così incapace di fronte all’Essere, allora la sete contraddizioni mi spinge a mettere in gioco le modalità trasmissive che uso a contornare l’Essere medesimo.

“L’apparizione della memoria che è oblio e il sorgere dell’autentico che è verità abitano il punto in cui la vita e la morte sembrano incontrarsi; ma questo avvicinamento è possibile soltanto nell’indicibile” [1]. Noi cerchiamo una parola che è segno della non-possibilità (la potremmo definire cancellata ancor prima di venire alla luce, atta a subire riscrittura postuma) poiché è passiva di dimenticanza nel momento stesso in cui prende a esistere. Guidieri sembra pertanto voler demandare alla negazione dell’essere – la morte, che egli interroga con patimento tra gli arcipelaghi melanesiani – la coniugazione percettiva che l’uomo traduce simbolicamente, infine, in scrittura; essa è il medium, comunica l’indicibile, l’osceno, nel tentativo di cercare la luce tra quanto giace vuoto o inerme. 

Se dunque l’esperienza percettiva ed espressiva nasce dall’antinomia tra il voler-dire, e quanto non-è-concesso-dire, intendo affermare la volontà con l’unico strumento che io sappia, ossia un codice già morto, fatto di percezioni olistiche che ci pongono in condizione di credere ma ci ingannano dopo aver creduto. Simulacra. La lingua è il simulacro. 

Come tale, dunque, si cali nel ruolo di medium che si frappone fra l’intenzionalità del dire e ciò che viene detto: mi riferisco a una lingua-daimon, luogo intermediale che permette al trascendente di farsi corpo comunicativo e darsi alla materia, sostanza prima di ogni atto.

Sbagliamo se crediamo che ciò che si scrive – più volgarmente dicendo, la poesia – sia connotato da uno statuto di astrazione e per questo assolta dalle stanche pastoie della contingenza. Molti pensano che ci si eterni perché il linguaggio è sostanziato da connotati concettualmente inestinguibili, a differenza del corpo. 

Ci si eterna appunto in ragione del contrario: perché scrivere è uno degli atti più materici che io conosca, pertiene all’antitesi della frattura qui-altrove, alla ricerca di emendare l’uno dall’altro, e senza un particolare o prestabilito ordine. Lo scarto fra corpo e ciò che non deperisce mai, fra slancio oggettuale e soggettivizzante è sempre l’innesco dell’arte, della creazione, della scrittura. 

Questo significa che la lingua, il segno che essa esperisce in ultimo, si dibatte come il daimon (e incorpora intermodalmente e l’apparizione di un ente e la ricezione materica dello stesso. Come una statua o un altarino, la lingua si fa simulacro 

Ricordiamolo: segno e simulacro non appartengono affatto alla medesima categoria [2]. Il segno deve significare, il simulacro è consacrato da una sottesa e non transigente reticula di esplose immagini e rivelazioni. Il simulacro è un veicolo che trasuda il simbolico e lo tralegge, lo rimanda e lo incarna. Le statue, asserisce Trismegisto al suo discepolo, sono loro stesse dèi, non riproduzioni mimetiche dell’idea numinosa. “Le immagini degli dèi create dall’uomo sono formate da entrambe le nature: quella divina, più pura e molto più sacra, e quella a disposizione degli uomini, che è la materia di cui sono composte” [3] . Il simulacro non è idea, ma è.

Solo stringendolo fra le mani e palpandone le consistenza sdrucciola comprenderemo come la lingua della poesia debba attingere il denso volume dell’immanenza perché il significante non sia la lacca, ma la sostanza stessa.

Come fare? Scruto la contraddizione continuamente e so che la mediazione del daimon si effettuerà, per essere evocazione che appartenga all’esplosione del tempo [4], solo se interverrà la forza di smembrare il dettato stesso, privandolo della vita che l’esperienza dell’ora-e-adesso tenta profusamente di secare nella cruna di una supposta verità. 

Non esiste verità nell’apparizione che la poesia cerca, non esiste vita letteralmente detta. Né occorre un codice dell’anima, ma un canone sciolto dai vincoli dell’ego-rappresentazione, cosicché altro non posso fare che privare la mia lingua di vita, farne una lingua morta, a guisa di oggetto museale: questo svuotamento serve a preparare l’involucro a essere empìto successivamente, insinuare senso laddove il tramite si attua, per essere vero punto mediano tra volontà e apparizione trascendente. Questo è il modo, non ne conosco altri.

Anche a costo di risultare erioforo di una lingua incomprensibile e volutamente scartata. Ricordo cosa diceva Borges in un suo racconto: “Gli dèi al loro ritorno avrebbero muggito soltanto” [5].

Ciò che non comprendiamo ci urta forse? Allontana? Separa? Non so rispondere. Solo la frattura mi cale, adesso, solo la separazione. Ovvero, la via d’accesso all’altare. Leggevo non troppo tempo fa si accennasse alla negromanzia dell’esistenza in relazione alla letteratura: accomodiamoci, si bisogna di altarini per un’evocazione. Di simulacra.


________________

[1] R. Guidieri, Il cammino dei morti, Adelphi, Milano 1988.

[2] Dal saggio di Michel Foucalt in explicit a P. Klossowski, Il Bagno di Diana, SE, Milano 2003.

[3] “Species vero deorum, quas conformat humanitas, ex utraque natura conformatae sunt; ex diunina, quae est purior e moltoque divionior et ex ea, quae intra homines est, id est ex materia qua fuerint fabricatae”. Nella traduzione di Valeria Schiavone, dal trattato Asclepius in Corpus Hermeticum, BUR, Milano 2001.

[4] P. Klossowski, op. cit.

[5] Dal racconto Ragnarök di J. L. Borges.



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