Catabasi VI
Elio Scarciglia, Volti di Roma, Museo Capitolino, Roma

Catabasi VI

diDiego Riccobene

Darsi a Satana, che cosa è?

Charles Baudelaire [1]


Desidero tranquillizzare l’eventuale lettore: non intendo evocare spiriti con questo scritto, né trattare con forze poco addomesticabili, ancorché questa possa essere segnatamente prerogativa di chi si accinge a usare la parola. 

No: mi limito a far riferimento a una determinata assoluzione del proprio status, dell’identificazione marchiatrice di quel facciamo e di come lo facciamo.  Non è possibile essere restii, né manco agire erompendo in decisioni univoche o in sentieri che possano – una volta battuti – definirsi consapevoli del tutto.

Il fatto è questo: la parola non esiste senza che colei stessa ci precluda qualcosa o qualcuno. Parliamo per abbracciare l’altrui o per perimetrarci in una zolla di terra cintata con la cura dovuta a un rito esequiale? So senza timore di smentita la risposta del coro a questo anelito intrinseco, così come so che si tratta di quella sbagliata, perché forse non esistono che risposte sbagliate ai quesiti ospitati nel silenzio della parola incomprensibile. 

Tuttavia mi contorco accorgendomi che noi contemporanei, tutti, perseveriamo nella poco ludibriosa ricerca non tanto della comprensione (quella per definizione si para come privilegio o condanna, tertium non datur), quanto dell’essere uditi e condivisi da un ente esterno, che lo si denomini lettore, fruitore o, ancor più coerentemente con le pulsioni d’oggi, utente (dio mi perdoni). Si vuole essere riconosciuti, potrei aggiungere.

Non era la rinuncia, altrimenti detta rassegnazione, a dover dettare il corso della letteratura perché si rinunci alle facili libertà della coscienza comune in nome di un ideale più scevro da sottodimensionamenti? “Buttino la loro umanità nella vasta tomba della natura”[2] reclamava Daumal. Ma a chi? Ai poeti, suvvia.

Darsi a Satana:[3] Baudelaire sapeva quel che diceva, sempre. Osceno il voler patteggiare con la falange della comunanza, della mummificazione delle anime, come egli stesso azzarda a definire la condizione semi-imputridita del nostro gamete sociale – pur ben protetto e sicuro, e chi lo nega? –  che richiede facili soluzioni, e soprattutto soluzioni comprensibili.

Se fosse poi proprio questo il veleno da smagare, oggi?

Studiando per personale diletto le usanze mortuarie di tribù melanesiane, apprendo che l’undicesimo stadio del rituale funebre praticato dalle tribù fataleka, chiamato “musica della grande Dracena Rossa”[4], prevede l’espletazione della componente musicale per completare un processo, che, in breve, si ritiene necessario all’approdo dello scomparso presso uno status di ancestralità. Ma la musica si compie nel vuoto, nel silenzio della parola; “è per natura differente dalle altre effettuazioni umane”[5]. Così i fataleka tentano l’avvicinamento allo stato di veggenza necessario per essere parte attesa e viva dei predetti momenti collettivi: veggenza che sta dove la poesia sgorga fin dal suo concepimento, tra gli ovari di Mnemosyne.

Inoltre, la lingua comune è causa di uno iato tra il fenomeno e la sua designazione: la percezione spontanea e normale delle cose per mezzo della lingua rimane pur sempre un afferrare degradato del sensibile[6]. Si deve forse cercare qualcosa di diverso allora da quanto percepiamo affine, una sorta di codice forse, una scrizione che sappia tradurre la sterile lettura del fenomeno sacro o immateriale in un simbolo, o meglio in un sigillo. Mi rendo conto che questa operazione, delicata come poche altre, tenda a scavalcare i confini tracciati dal filologo, e porti l’operato di chi se ne fa responsabilità nel τέμενος dell’iniziazione. Pure, sento che sia da fare.

Ci vorrebbe, per dirla con Borges[7], una qualche sorta di libro di sabbia, sorgente di sapienza che non possa essere cominciata o terminata, che sia scandita da numerazioni altercanti e indecifrabili, che rechi segni e segnali ardimentosamente confutabili. Un codice “mostruoso”[8], corrompente, ci vorrebbe.

Non è pertanto improbo pervenire alla possibilità del rimanere inuditi e silenziosi, o addirittura fatalmente confutati e incondivisibili – in merito al fatto formale, anche e soprattutto – per potersi successivamente schiudere alla natura di quel che facciamo quando pratichiamo la parola in ragione d’arte.


____________________________

[1] C. Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, Adelphi, Milano 1983.

[2] Da Le Grand Jeu, Adelphi, Milano, 1967.

[3]  C. Baudelaire, op. cit.

[4] R. Guidieri, Il cammino dei morti, Adelphi, Milano, 1988.

[5]  Ibid.

[6]  Ibid.

[7]  Dal racconto Il libro di sabbia, di Jose Luis Borges, edito Adelphi, 1996 nella raccolta di narrazioni omologa.

[8]  Ibid.


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