Catabassi, III
Elio Scarciglia, Napoli (Castel Sant'Elmo), "Dignità autonome di prostituzione"

Catabassi, III

diDiego Riccobene

Un damné descendant sans lampe,
Au bord d'un gouffre dont l'odeur
Trahit l'humide profondeur,
D'éternels escaliers sans rampe

C. Baudelaire, L’Irrémédiable

 

Dicevo che mi sarei attardato per auscultare, non è così?

Sono stanco. La penombra è un confine assai sdrucciolo, mi ha sfinito puntare l’occhio sempre al basso, scorgere ove sia la fine e perché essa sembri apprestarsi solo per Quello che rimane in veglia. Di Martino riporta di tribù Fuegini che usano rendere inservibili i luoghi d’inumazione, inibiscono la pronuncia cruda dei nomi di chi è estinto; vogliono insomma assicurarsi che da quell’altra parte non si torni, si stia e non si portino insidie qui[1]. Così anche fosse, rimarrebbe a noi qualcos’altro da testimoniare?

Chi scrive in fin dei conti non esiste finché non sappia pronunciare nella lingua madre il decreto di quel riconoscimento “totalmente Altro”, lo stesso di cui Rudolf Otto[2]. Incidere il nome è come riconoscere che il tremendum si qualifichi come sorgente, l’unica: nondimeno è lo stesso che esercita il fascino necessario perché le palpitazioni di quel linguaggio possano essere udite e riprodotte, traslate, versate.

Raccogliere i segni per procura e infliggerli su carta sarebbe cosa di poco momento, se questi stessi fossero cifrati nel codice piano della testimonianza “oggettiva”. Sempre che quest’ultima dicitura possa ancora assumere un senso, adesso. Oggettivare nell’epoca della manfrina autobiografica? Oggettivare cosa? Una impalpabile, prona riflessione sul nostro quotidiano esperire sensazioni quali felicità, noia, tormento? Non mi pare che questo possa consumare una seppur minima dignità.

In verità, parlare di oggettività è preludere alla separazione, la cruna che immèrgesi nel denso di una notte, qualunque; è come sentirsi in preda a un lutto costante e tentare di far fronte all’ebetudine stuporosa dello stesso: allora, solo la ritmicità del rituale, il ripersi di parole, nessi e formule – come di accenti e mimiche – salva dalla crisi e non permette che l’impasse travalichi in parossismo[3].

Lo spossessamento ci inorridisce fino all’agnizione: questa credo sia l’unica verità “oggettiva” posta. È talmente concreto, il senso stesso di separarsi dall’alter, che pare di palparla, quella presenza che lentamente si allontana dal sé e scende le scale, rassegnazione e concento allumati da fioca ma pervicace lanterna.

Peraltro, se di catabasi necessaria si sta parlando, sarà altrettanto necessario riemergerne, data la verticalità indifferibile del sentiero battuto. Per farlo, quindi, solo la ritualizzazione, o per meglio dire la disciplina d’auto-imposizione formale, consente di potersi reintegrare nella sovrastruttura formale originaria.

Forse bisognerebbe da qui ripartire, tentando di calcificare un basamento sufficientemente stabile a reggere la cattedrale delle nostre inadempienze: le anime già sono quello che Platone intese[4], un incantesimo indotto su noi stessi? Ipnosi auto-inflitta per scongiurare la morte del logos? Se così fosse, occorrerebbe conoscere le modalità di stordimento, i passi, le palpitazioni.

Conoscere, applicare, ripetere. Poi ancora.

 

 



[1] Ne tratta Ernesto De Martino a introduzione del suo fondante studio titolato Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al lamento di Maria, a cura di Marcello Massenzio, Einaudi, Torino, 2021.

[2] Cfr. R. Otto, Il Sacro, SE, Milano

[3] Cfr. nota 1

[4] Dal Fedone, nello specifico capitolo Περί ψυχής.



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