Cattedrale di Otranto: una discesa nel mito -  II^ parte
Elio Scarciglia, processione venerdì santo, La desolata, Bitonto

Cattedrale di Otranto: una discesa nel mito - II^ parte

diGabriella Cinti

Ateneo di Naucrati


Mitologia, storia, cabala, simbologia esoterica trovavano posto armonico nel pavimento musivo, collocate amorosamente e visionariamente dalla mente febbrile e creativa di Pantaleone. La sua operazione, assai più criptica, a dire il vero, assumeva analogie affascinanti con l’operazione di un altro gran personaggio, il greco-romano Ateneo, cronologicamente anteriore (II sec. d.C.), ma animato dallo stesso spirito enciclopedico, e cioè di salvare, in una sorta di grande arca di Noè, il mondo ellenico, nel più pantagruelico banchetto della Storia (della durata di quindici libri e di quattromila pagine circa). Banchetto non orgiastico come quello del Satyricon di Petronio Arbitrio, ma teso a salvare la totalità della cultura materiale - e non solo del mondo greco - dalla perdita anche fisica dei dati, dei frammenti e quindi della vita degli autori.

Quell’Ateneo tanto citato dalle fonti e così poco letto…da poco avevo iniziato a scalare anche quella montagna di sapere, rigorosamente nella veste originale greca, leggendo ovviamente anche la traduzione, ma entrando in una degustazione fonosimbolica della sterminata serie di nomi di pesci, di piante, d’erbe, di cibi, ma anche antichissime consuetudini, come le danze rituali descritte da Omero, che comparivano davanti ai miei occhi insieme a schiere di classificatori “scientifici”, altrimenti persi, nonché di intellettuali e poeti. Vi avrei trovato per esempio, la descrizione di una Danza delle spade trace, la cui notizia risaliva a Senofonte, che si poteva considerare la diretta antenata dell’omonima danza pugliese, in realtà diffusa in culture tribali o arcaiche.

 Persone, individui che erano passati dalla casa del magnate romano Larense e avevano inscenato la cena filosofica della storia nell’opera omonima: “I deipnosofisti” di Ateneo, vissuto tra il II e il III secolo d.C., probabilmente nell’età di Commodo (180-192), e chiamato “di Naucrati”, dal momento che, secondo i manoscritti della sua opera, visse nella città di Naucrati, che era la città egizia con il più alto insediamento di greci, come ci ricorda Erodoto, nelle sue Storie. 

Lusso, dieta, salute, sesso, musica, costumi sociali, poesia, umorismo e lessicografia greca sono tra gli argomenti che vengono trattati nell’opera anche se centrali rimangono nel dialogo, il cibo, il vino e il divertimento. L’opera è inoltre una valida fonte per gli studi riguardanti la sessualità nella Grecia ellenistica, ma soprattutto ha permesso, grazie alle citazioni fatte dagli ospiti dell’interminabile cena, di salvare dall’oblio tanti versi splendidi di autori come Alceo di Mitilene, tramandati solo grazie al salvataggio, non sappiamo quanto involontario, fattone dal coltissimo Ateneo. L’associazione tra Ateneo e Pantaleone mi veniva dalla dimensione monumentale delle rispettive opere, che aspiravano in modi diversi a una totalità, non meno che a consegnare alla storia interi repertori di esistenze in una duplice prospettiva: quella del grande affresco enciclopedico storico-artistico e, l’altra, quella degli infiniti dettagli che li rendono particolarmente vivi, in tutte le sfaccettature del vivere sociale e dei costumi alimentari, tanto da illuminare tutti i particolari di un pasto, inclusi i minuscoli scarti di cibo lasciati a terra nel corso di un banchetto. Particolari, che nella mia immaginazione diventano vivi e tridimensionali, come un avanzo di gambero o un torsolo di mela, individuati in un mosaico raffigurante un pavimento durante un festino; natura morta che rivive, nell’eterno presente di Ateneo, resa tridimensionale e luminosa dalla patina fonica della parola greca, anche desueta o idiolettica, che rende anche i dettagli individuali e irresistibili. Così la pluralità delle immagini, la loro sovrabbondanza, e la grazia tenera e viva dei particolari visivi - specialmente quelli riferiti al quotidiano e all’attività agricola - mi rendevano questo grande quadro di pietra così vivo e caldo, da farmi davvero soffrire di doverci posare i miei sandali, certo non dal tacco appuntito, ma pur sempre sporche suole di scarpe.



La catabasi: nell’albero della vita


Dopo diverse ore, decisi che non era più tempo di guardare, bensì dovevo mettere in atto un’azione di contatto molto più profonda e coinvolgente, di alto valore simbolico e iniziatico: dovevo cioè sdraiarmi sull’albero della vita, dovevo entrare in rapporto vivo, attraverso la mia carne pulsante, con quel simbolo vivente nelle tessere, una sorta di contatto “graalico” con quel luogo. Scelsi una navata laterale, una ramificazione dell’albero, meno grande del tronco centrale, ma più protetta da sguardi indiscreti ed iniziai la mia catabasi. 

Se l’albero indicava un’ascensione verso la conoscenza, io per risalire con lui, avrei dovuto scendere, come l’antico mito della discesa nell’Ade, come Persefone e l’Arianna cretese, come la Inanna sumerica. Io, più che conoscere tutti gli intricati simboli misterici che compongono il mosaico e che rinviano ad una dimensione gnostica ed esoterica fortemente ermetica, oltre alla notevole presenza vetero-testamentaria, volevo superare ogni possibile forma di comprensione razionale, per stabilire un contatto diretto con quella scrittura musiva, che letteralmente mi parlava e mi incantava come una musica misteriosa. Certo, avevo cercato di vedere e catturare con gli occhi quante più immagini possibili da registrare nella memoria, ma volevo che fosse il mio corpo ora a “leggere” per me quella folta foresta di simboli, quel condensato di sapienza e di mistero. Avevo anche individuato in un’area centrale del mosaico, quella torre di Babele su cui ogni uomo è chiamato a riflettere e che a me, quell’estate, aveva tanto sollecitato, fino al tormento di cercare, seguendo trattati e rigorosi studi, di decifrare la lingua primitiva paleolitica, potenzialmente prima di ogni scissione, verso un’origine linguistica iscritta nel nostro patrimonio genetico. Dunque, mentre cercavo di raggiungere Pantaleone in uno “stargate” dermico e corporeo, il mio sciamano mi guardava e mi incoraggiava perché comprendeva che per quanto bizzarra l’operazione potesse sembrare ad occhi estranei, si trattava in realtà di un atto “mistico” e di tutt’altra natura che la contaminazione con la fisicità di un corpo. Senza contare che di fisicità il mosaico pullulava, unita tuttavia a una dimensione altamente simbolica. Quello che mi irretiva e che sentivo particolarmente vicina, era la multidimensionalità della struttura delle raffigurazioni del mosaico, in chiave sicuramente cabalistica ma anche sincretica, per la capacità di Pantaleone di muoversi in modo corto-circuitante nello spazio e nel tempo, nella storia, nel mito e nel sogno universale dell’uomo.  Sempre in chiave cabalistica, ero attratta anche dalla figura del doppio, da quella Sirena con coda biforcuta, che nell’accezione dello gnostico egiziano Basilide, era l’Abrasax, il nome oscuro dato al Sommo Architetto dell’Universo: i due serpenti, che fanno da arti inferiori all'essere, identificavano l'unione tra l’elemento maschile e femminile e hanno un chiaro significato di natura sessuale. 

È difficile, qui, ignorare  l’analogia con un’altra celebre figura del mito tebano, il vate androgino Tiresia, cantato da Ovidio nelle Metamorfosi (III, 324-351) e richiamato anche da Dante in un episodio celeberrimo della Commedia (Inf., XX, 40-44): il racconto mitico, infatti, dice che Tiresia, avendo un giorno percosso con la sua verga due serpenti amorosamente avvinti, si sentì mutare tutte le sue membra di uomo in donna; e, sette anni dopo, avendo nuovamente percosso con la stessa verga gli stessi due serpenti, si sentì mutare di bel nuovo di donna in uomo.

Il nome Abrasax è alla base della formula magica “Abracadabra” (abrasadabra in greco) che proviene dalle parole Ab, Padre, Ben, Figlio, e Acadsch, lo Spirito; di conseguenza racchiude in sé il concetto trinitario. D’altro canto, Basilide stesso era anche influenzato dallo zoroastrismo, con la dottrina dualistica, così presente nel mondo orientale, ma ritrovabile anche nel pensiero ellenico.  Ma tutto questo, prima di suscitare riflessioni concettuali-esoteriche, faceva riemergere - dalla memoria della mia infanzia  - quella formula magica, di irresistibile fascino, che mi stregava durante le mie letture solitarie delle  Mille ed una notte. Il tema magico-fantastico coniugava le mie fantasie infantili con l’immaginario occidentale ed orientale, in una magica fusione. Tra l’altro il valore numerico delle lettere del nome Abrasax è 365 ed è pari, quindi, ai giorni dell'anno (nell'alfabeto greco A = 1, B = 2, R = 100, A = 1, S = 200, A = 1, X = 60, totale 365), quindi alla totalità di un ciclo.  Pantaleone aveva colto al volo e fermato per sempre la figura dell’endiadi, cioè della duplicità, in quelle tessere di marmo colorato, che sembravano guizzare sotto i miei occhi, l’archetipo e il simbolo che compone elementi diversi, vivevano sotto i miei occhi nella forza fatale dell’immagine. 

La duplicità del serpente mi rinviava a simboli ancestrali, al dionisismo, al labirinto cretese che in terra di Puglia avrei incontrato più tardi.

Dunque, eccomi giungere al sospirato momento della catabasi. 

Vestita di bianco per la torrida temperatura esterna ed interna ma ancor più per un stato d’animo rituale, cominciai lentamente a calarmi verso ciò che non mi sembrava semplicemente un pavimento, bensì assumeva sempre più l’aspetto di un tappeto volante, che mi avrebbe portato via nello spazio e nel tempo. Se il tema dell’albero della Conoscenza e del cammino di crescita interiore pare essere dominante nel mosaico, io desideravo fisicamente di diventare parte corporea di quel processo, attraverso il mio corpo. Le mie ginocchia scendevano verso terra e scivolai lentamente sul mosaico, sulla colonna laterale di un più piccolo albero della vita, fino ad aderirvi con tutto il mio corpo. Poi appoggiai la guancia destra su di un ramo laterale ed infine, per completare l’opera, aprii le braccia aderendo anche con queste e con le mani. Tutto il mio corpo era in situazione. La storia e le storie di Pantaleone, come lettere cifrate di un codice magico era come se si staccassero dal suolo ed entrassero in me, generando una nuova e segreta energia. Si compiva un’iniziazione, di cui non comprendevo i contorni, ma ben percepivo l’atmosfera densa di significazione. Non a caso mi ero assegnata un nome d’arte: “Mystis”, che in greco vuol dire iniziatrice, nell’interpretare la poesia dei poeti ellenici, accompagnata dalla musica e dalla danza. Ma, questa volta, ero io che venivo iniziata, o meglio riconsegnata ad uno stadio di inizio, con un salto indietro verso un’inizializzazione storica ed interiore, che non casualmente si compiva proprio qui, in questa terra d’Otranto, così vicina al mondo greco, da meritare il nome di Grecìa salentina. Non so quanti minuti o secoli trascorsi in quella posizione, ma non sentivo alcuna durezza, persino l’odore di polvere mi sembrava sapesse di un muschio emanato da quell’albero ancestrale. Alcuni mesi più tardi, avrei ritovato nel contemplare i boschi misterici di un raffinato incisore marchigiano, Mauro Mazziero, la stessa atmosfera di arcana sacralità, di mistero filosofico ed esistenziale. Il silenzio del mio sciamano era musica, la densità dell’aria calda mi incollava al suolo. Nessuno mi vedeva, ma avevo la sensazione che, se anche fosse passato qualcuno, forse non mi avrebbe visto, perché io ero forse dentro l’albero. Per favorire questa simbiosi, presi, dopo un lungo tempo di immobilità estatica, a muovere il mio corpo, sempre sdraiato sul pavimento, con un leggero movimento ondulatorio e percepii, in una sorta di metamorfosi, che il mio corpo “diveniva” quel movimento rituale, ondulatorio, si faceva una sorta di serpente, l’ancestralità della cui figura può farci molto riflettere. Al serpente, per esempio, si ricollegava la coda doppia della Sirena-Abrasax o ancora più indietro risalivo al serpente dionisiaco mimetizzato nel tirso delle Menadi, o ai serpenti custodi delle caverne, dove diverse figure mitologiche devono essere protette. Volavo con la fantasia, al punto da percepire una sorta di mutazione in quell’edera che avvolge gli alberi da sempre e che rappresenta uno dei simboli portanti del dionisismo. Non mi sarei stupita se dalle mia dita fossero spuntati filamenti verdi di una nuova vegetale ed animistica natura, un po’ come i germogli di cereali che spuntano dal corpo morto di Osiride  vegetante, a sancire la continuità della vita con la morte. 

Da quel momento molte cose sono accadute che io connetto a questo mio contatto iniziatico: incontri singolari, soprattutto con artisti, poeti, scrittori, ricercatori, archeologi, che sembrano collocarsi nella mia vita secondo un piano segreto. Lentamente - e a malincuore - risalii verso la superficie, ma ormai qualche cosa era scattato in me e nelle cose all’intorno, un impercettibile click che avrebbe aperto nuovi orizzonti. I miei bianchi vestiti si erano ricoperti di un velo di polvere grigia, che tuttavia non volli affatto attribuire all’incuria igienica del pavimento, bensì interpretai e sentii come una sorta di polvere magica, in un incrocio di varianti mitologiche del tema polvere che mi rinviavano fortemente al dionisismo, dal gesso-calce dei Titanoi (in greco significa “calce”) di cui era ricoperto il viso dei Giganti che sbranarono Dioniso e che ancora, a livello planetario, ritorna nel coprirsi il viso di colore nelle cerimonie iniziatiche delle società tribali. Ma questa polvere poteva essere anche la traccia dell’indistruttibile Dioniso, che, divorato dai Titani e in un certo senso introiettato da loro, ritorna nella discendenza umana, in forma di un’impalpabile sostanza che miticamente si auto-tramanda.  Quindi non mi scrollai di dosso quella polvere, conservando anch’essa come un prezioso dono iniziatico, dove la scoperta di me stessa e delle mie radici picene ed ancestrali, doveva passare da Otranto per tornare con l’anima a Creta, da dove probabilmente provengo e alla quale il percorso circolare dei tondi iconici del mosaico - specialmente visti nel loro insieme - conferiva un senso labirintico. Tutto quello che avevo vissuto era davvero solo l’inizio. Uscii quasi levitando dal Duomo e riprendemmo a parlare, io e il mio antropologo-sciamano di molte cose. L’aria era come elettrizzata da percezioni e presentimenti. Dovevo congedarmi per tornare a Santa Cesarea, dove alloggiavo e dove mi attendevano. 

Per ragioni che ignoro l’autobus non passò… forse per permettere al corso degli eventi di seguire quella piega tortuosa come il labirinto e l’edera, che mi avrebbe portato in direzioni ancestrali. 

Risalivo dunque le strade che mi portavano al centro, sperando in un improbabile taxi, ed ecco che, per un’incredibile coincidenza, rincontrai il mio “sciamano”, che si offerse di darmi un passaggio con la sua auto. A quel punto accettai senza esitare, anche perché sentivo confusamente che qualche cosa di speciale mi attendeva.


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