Cattedrale di Otranto: una discesa nel mito -  I^ parte
Gaspare Canino, Le campane del sabato

Cattedrale di Otranto: una discesa nel mito - I^ parte

diGabriella Cinti

L’approdo


Finalmente il compimento del mio destino! Anni di attrazione intensa ma indeterminata avevano preceduto il mio sbarco ad Otranto. Poi la complicità si è data una veste d’amore e - grazie a mia cugina Paola - ero finalmente lì, in un giorno d’estate senza tempo. Certo il mio primo ingresso, tanto agognato, nella Cattedrale, non mi aveva entusiasmato. Vi si celebrava un matrimonio che mi sembrava, come atmosfera, stranamente assai laico. L’eleganza sfarzosa e un po’ pacchiana delle donne intervenute alla cerimonia, contrastava con il clima di mistero altissimo che io vi respiravo. Blindato tutto il cuore della chiesa da panche ed arredi, pachidermici e ingombranti, che sottraevano quasi tutto alla mia vista. Dalle navate laterali tentavo - con manovre al limite dell’equilibrismo - di sporgermi verso ciò che restava visibile del mosaico, placidamente ed incoscientemente calpestato, direi trafitto, da improbabili altissimi tacchi-stiletto delle donne presenti, che trasformavano l’anima del mosaico in un troppo paziente fachiro.

L’occhiuto custode - probabilmente il parroco -  mi redarguì  ben presto, per il mio distendermi e protendermi verso il centro della chiesa, poco consono alla sacralità del luogo, che secondo lui non risiedeva nel pavimento, bensì nella funzione della chiesa come luogo di culto. In realtà io percepivo più spiritualità in una sola tessera del mosaico che in tutta la sua persona. Dovetti congedarmi dunque da questo contatto solo sfiorato, perché il velo mi si aprisse più tardi, in modo più appagante.

Dunque, mentre la terra misterica del Salento mi apriva i suoi orizzonti di edenica bellezza, imparavo a conoscere i Messapi e le loro donne, pare libere e sovrane come le antiche picene, cui sento di appartenere. I cieli tersi, la luce densa e corposa, mi contenevano in uno stato di pienezza vitale, cullato dal vento ellenico che mi giungeva a folate, acuendo il mio desiderio del nostos. La Grecia era là e il fondo segreto delle mie pupille scrutava il mare di Otranto, per cercarvi l’approdo sognato. I giorni passavano intensi e accrescevano la mia fatale attrazione per il mosaico. Arrivò il giorno da me fissato per l’ “immersione” marmorea (che, non per caso, vien dal greco “marmairo”, che significa “rifulgere di biancore”) e le circostanze vollero che gli orari del tutto approssimativi degli autobus tracciassero la rotta oraria del destino che si sarebbe dovuto compiere: infatti, furono regolarmente ed implacabilmente persi, sia all’andata sia al ritorno. Preso quindi un taxi, entravo in Otranto, sapendo che si sarebbe compiuta un’attesa iniziatica prima delle fatidiche tre, ora di apertura della cattedrale. Il vento caldo si insinuava tra i vicoli intriganti della città e cominciava a parlarmi delle stratificazioni di civiltà succedutesi ma anche delle storie antiche e violente che Otranto aveva subito, tra cui l’ombra nera dei Turchi alla fine del ‘400, opponendovi la resistenza della sua bellezza di pietra bianca, la forza della sua magia, che dai rami dell’albero uscivano, sciamando per le strade e verso di me, già così irretita. Sentivo le pupille di marmo di Pantaleone, l’incredibile artefice di quella meraviglia, puntate su di me, Orfeo dell’immagine, da cui ero rapita ancor prima di vederle. In realtà, il mio desiderio più grande era sdraiarmi sul pavimento del Duomo, strofinarmi su quelle tessere e perfondere parte del mio essere su quella storia disegnata. La grande storia del mondo e dell’occidente avrebbe catturata la mia piccola storia e cambiato il corso della mia vita. 



Lo “sciamano”


Giunta sul piazzale dopo alcune ore di non-tempo, in cui le azioni si erano azzerate e tutta Otranto mi sembrava in attesa, sul piazzale assolato del Duomo, il mio sguardo incontrò una figura destinata ad illuminarmi e condurmi su sentieri in cui ero attesa, una sorta di Virgilio salentino. Non fu la sua personalità ad attirarmi; a dire il vero era un uomo quasi sfuggente, evanescente e un pò obliquo, sussurante e come stralunato, come forse io stessa sarei apparsa ad occhi estranei, per una tensione interna che mi distaccava dal mondo circostante.

 Era un’allusione vivente e mi colpì la strana complicità, del tutto metafisica, del nostro approccio. La sua formazione di antropologo si sarebbe rivelata di grande importanza per la decifrazione, o meglio il viaggio, che avrei compiuto quel giorno e da quel giorno. I suoi orientamenti più segreti lo portavano verso lo sciamanesimo: da quel momento lo definii, dentro di me, “il mio sciamano”. Occorre dire che percepii in modo folgorante il senso totale del nome d’arte che mi sono data (o che forse mi era stato destinato): “Mystis”, l’iniziatrice. Sentivo che tutta la mia ricerca sul mondo ellenico e arcaico doveva approdare proprio su quel mosaico, da dove la mia vita sarebbe ripartita, forte della condivisione di una segreta linfa vitale. Ancora non lo sapevo, quando, entrata finalmente nella calura di umidità densa dell’ambiente, percepivo di essere come nella jungla, ma la foresta, in questo caso, era rappresentata dalla storia e dalla vita, in forma di immagini. Tutto era gravido di attesa magica. Parlammo e “significammo”. Intrecciammo le nostre storie e le nostre conoscenze, mentre i rami dell’albero della vita, cominciavano a sollevarsi, invisibilmente, verso di me. Avevo letto dell’humus nel quale Pantaleone si era formato, quella mitica Casole, luce culturale dell’Occidente, probabilmente già dal V secolo. Quando tutto da noi stava perdendosi, Casole era un faro, un’arca di Noè, dove pazienti e strani monaci, tanto occidentali quanto orientali, in realtà tessevano attraverso le loro mani la testimonianza dell’Ellade e delle civiltà antiche; letteralmente oserei dire, se la g-rafia amanuense, contiene nella parola ellenica, una radice che la connette a “rafé”, cucitura.  Pantaleone aveva letto i Vangeli gnostici,  la cui conoscenza si sarebbe recuperata in Europa, soltanto nel secolo scorso. Pantaleone, greco del XII secolo, uomo di cultura più e oltre che di chiesa, appassionato dell’Ellade e della conoscenza, della storia come del quotidiano, gran visionario nel senso più profondo del termine: quest’uomo aveva fatto di quel mosaico una testimonianza sincretica appassionata della storia umana fino al suo presente, con un’inclinazione particolare verso la dimensione ermetica, cabalistica e misterica. Lì ero chiamata e so che la decifrazione, anche oggi, è in realtà solo all’inizio; forse questo è un motivo in più per spiegare l’eccitazione incontenibile che lì mi vevaa pervaso. Due volte avevo provato nel passato questa sensazione, quando un furore di  ascesa mi spinse a scalare quel piccolo monte sassoso nel cuore di Delo, in Grecia, prima di sapere che si trattava del Monte Cinto, che alludeva al mio cognome. Non so se fosse a causa della parola greca che lo nominava o della luce chiara e terribile di Apollo, so che fui rapita da un moto ascensionale che mi conduceva nel gorgo alto del monte, dove divenni occhio di altri Occhi, al centro delle Cicladi che pulsavano di un azzurro sacrale. E poi Delfi, l’òmphalos misterico dove il mio balbettio ellenico si fuse con l’eco di altra farneticazione, dove, come in levitazione, ascesi il Parnaso, chiamata dall’altro volto di Apollo, l’indistruttibile Dioniso. Delfi, luogo di cerimonie segrete nascoste tra quelle rocce, esalanti forse vapori narcotici.

Delfi, dove la storia si scioglie nel mistero e si eterna in esso. 

Con questo stesso spirito io entravo nel Duomo di Otranto, mi avvicinavo ad esplorare quel complesso di miti e di archetipi, a frugare in fondo al tempo e in me stessa.

Cercai subito quel piccolo grande uomo, che aveva compiuto un’opera degna di Michelangelo, una Cappella Sistina srotolata a terra. E in uno dei cerchi che raffigurano i mesi, eccolo davanti a un unicorno, forse il simbolo della conoscenza, ma senz’altro animale fatato delle favole della mia infanzia in cui, regolarmente bianco, si presentava al cospetto di bionde principesse dai capelli inanellati, per annunciare ogni sorta di prodigi.


L’universo esoterico


Il tempo non scorreva ma io scendevo fisicamente più in basso, mi chinavo per cogliere tutti gli aspetti di quello straordinario enigma, che prima di essere tale aveva il fascino di una grandiosa opera d’arte. Ecco dunque Pantaleone, con il suo unicorno e una stella magica e misterica, senz’altro esoterica, come quella che brillava in testa al Minotauro nel Labirinto cretese, secondo una delle tante versioni del mito, e che può essere una testimonianza della connessione tra cielo e terra, della loro eterna bipolarità. Vi era di più, vale a dire tutto il mosaico si presentava come un grandioso percorso di profonda meditazione, guidata da un cammino di simboli, anche occulti per accedere a uno stato superiore di Coscienza universale. Vi si coglieva una enorme e complessa cosmologia, ma anche la messa a confronto dei tre principali sistemi mistici completi (ebraico, cristiano ed induista) tra loro interrelati ed intrecciati in modi solo intuibili, per l’intricata e voluta oscurità dei riferimenti simbolici. Che si trattasse di un percorso di iniziazione era percepibile. Meno chiare erano le direzioni di quest’ascesi, ma il mio “maestro” mi segnalò, sottovoce e con fare assai complice, che un grande punto di riferimento per l’interpretazione del mosaico si sarebbe potuto ritrovare nella quasi mitica “Navigazione di San Brandano”, testo irlandese composto tra il VII e l’VIII sec. a.C., con soggetto una navigazione di tipo spirituale, ma probabilmente anche materiale, condotta via mare, verso Occidente, da parte di questo santo. È senz’altro possibile che il viaggio compiuto da Dante, cinque secoli più tardi, si sia ispirato a quest’antica navigazione spirituale, che in parte tuttavia sembra ripercorrere il viaggio dell’Odissea, specie negli aspetti esotico-favolistici.   Sicuramente si trattava di una versione proto-cristiana, molto prima di Dante, di un viaggio nell’al di là, o meglio in una dimensione molto al di là della nuda realtà, ricca di simboli e di situazioni magiche, che si richiama a viaggi come quello di Ulisse e a un tipo di peregrinazione per mare in forma labirintica, che, ancora una volta, ci riporta a Cnosso, ai meandri del Palazzo regale, simili ai tortuosi tragitti marini di San Brandano.   

       Guardavo ed esploravo, scambiavo con il mio sciamano parole sempre più silenziose, quasi fruscii, sussurri, perché , di fronte al mistero, la voce si assottiglia e si entra nel mondo di un silenzio parlante, o da decifrare con strumenti “uditivi” di diversa natura. C’era Babele, quella spaccatura che il grande Pantaleone avrebbe forse voluto ricomporre nella sua ampia visione prospettica d’Oriente ed Occidente e che, con i miei iniziali  studi di paleolinguistica (che avrei approfondito in svariate direzioni - soprattutto mesopotamiche - nel decennio successivo) , anche io cercavo in quei mesi di ricomporre. Grecia e India gli erano familiari e navigava nei simboli cabalistici con una naturalezza estrema. La complessità delle Sefirot, questi concetti metafisici, si snodava nelle ramificazioni dell’albero, offrendosi all’interpretazione esoterica che solo i più esperti potevano adeguatamente compiere. Io, invece, sentivo esclusivamente di navigare all’indietro, in un violento corto-circuito spazio-temporale, in cui Re Artù, Alessandro Magno, Ninive ed il gatto con gli stivali, convivevano e vorticavano in me. L’elemento sessuale ritornava frequentemente in vari corpi nudi, come nella donna svestita a cavalcioni di un ramo, o nell’accoppiamento degli elefanti alla base dell’albero della vita, o nel rinvio vitalistico agli stivali magici-sessuati del gatto, che sono d’aiuto persino per re Artù. Pantaleone era un assetato di conoscenza ed era attratto dalla dimensione misterica, dalla teologia gnostica, dalla Cabala; sostanzialmente, da culti eretici, nonché dai simboli templari come la scacchiera ed il Graal, che, tra l’altro, erano cronologicamente coevi.  Era davvero un monaco sui generis, ma non potevo non pensare a Casole, a quella Sorbona antichissima, centro luminoso di civiltà cui Pantaleone apparteneva, a tutti i codici trascritti pazientemente dai monaci in tempi antichissimi, già dal IV sec. a.C. e, soprattutto, a quell’atmosfera di sincretismo culturale tra l’Oriente (persino spingendosi verso la religiosità induista, in direzione della quale era affacciata Otranto) e l’occidente ellenico. Pantaleone aveva voluto salvare, nella sua Arca di Noè musiva, tutta la cultura e civiltà, non solo del suo tempo, ma di tutti i tempi, dando rilievo sia ai grandi personaggi del passato come Alessandro Magno, sia alle umili azioni del lavoro quotidiano, nella dimensione dell’agricoltura e delle stagioni, come anche a simboli arcani e ancestrali, come quegli “uccelli filosofi” sumeri che il mio sciamano mi fece preziosamente osservare. 




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