Che cosa significa pensare
Giuseppe Letizia, Pezzo meccanico, pietra leccese

Che cosa significa pensare

diVincenzo Crosio

Per troppo tempo il pensiero occidentale, tranne qualche notevole eccezione, -eretico pensiero forse solitario e ascetico-, (sarà stato forse il demone di Socrate?) ha seppellito il pensiero stesso, il corpo e il mondo intorno a noi, in una nebbia paradossale. Quanto più speculava intorno all’argomento come suo oggetto di esperienza tanto più lo nascondeva in una coltre d’invisibilità, quanto più l’io indagava il tu, tanto più non scopriva il tu né il sé, e smarriva miseramente il suo io. Allora ha inventato “Dio”, l’”ente” e il “ni-ente”, il popolo si è sbeffeggiato del filosofo e ha smarrito la sapienza. Il beffardo invito di Socrate a scoprire chi siamo, si è trasformato in una apologia della costruzione di un sistema; il nous deion, la mente divina, si è trasformata nella procedura del Conveniente. La logica, strumento inafferrabile e vuoto, si è trasformata in una serie infinita di paradossi e aberrazioni semantiche; il gusto del bello, nella misura di una proporzione e l’arte segreta di indagare il dominio del Tempo, in una astrologia demenziale. E infine gli uomini lasciati soli nella tempesta del dubbio, hanno costruito sistemi politici senza senso e immaginato lutti e tragedie che lo hanno ricacciato indietro, nelle tenebre del pensiero ansioso e solipsistico, ombre e terrore della morte si sono smarriti in una follia del torto contro la ragione. Da allora non c’è più pace, il pensiero occidentale ha prodotto il deserto e l’abominio, ha inventato una tecnica fallace e opportunista e l’angoscia della morte si è trasformata nell’angoscia del vivere. Lo scalpello e il martello, l’inchiostro e la penna si sono trasformati nell’arco e nella freccia avvelenata, la verità nella menzogna e l’universo spazio-tempo in un luogo anonimo di scimmie impazzite.

Sottilmente s’affaccia dunque il dubbio che questo pensiero, il pensiero che pensa sé stesso come oggetto della propria indagine, produca uno stato reale ed immaginario di dissociazione tra il pensiero stesso, l’uomo e il mondo. La filosofia che era nata come luogo privilegiato per spiegare l’exsistere, (l’essere nati nel mondo) e il suo esserci, -il dasein- (l’essere nel mondo), diventa al suo culmine la filosofia del nulla; la metafisica dell’ente diventa la metafisica del nessun ente e dunque l’abisso del pensiero, il suo non consistere dentro l’orizzonte dell’umano e del divino, diventa il pensiero del niente, nega l’esistenza di sé e del mondo. Diventa con Nietzsche e con Heidegger, la metafisica del niente. Non augurerei a nessuno di giungere fin lì. L’abisso, ciò che smarrisce l’uomo nel suo infinito volgersi, è ciò che spetta all’ultimo Ulisse. Ma non potrebbe essere altrimenti. La causa diventa il caos, e il caso il fortuito accadere di particelle aleatorie. Il pensiero che spiega il mondo oggettivo come un accadere di caotiche volute, una molteplicità senza forma, si piega su sé stesso e non spiega più né il mondo, né se stesso, ne l’esistenza del vivente, il suo pre-esse. Dunque a che serve pensare, cosa è pensare?

Il pensiero, l’atto di pendere di un qualcosa, il ponderare, il soppesare, è il suo vano tentativo di spiegare sé stesso e il mondo attraverso un fallimento. E con esso anche la mente diventa un vano vuoto, una negazione di sé stessa. Se il pensiero religioso-la dottrina- intraprende un impossibile viaggio verso Dio, la ragione intraprende un impossibile viaggio verso la conoscenza. E allora che fare? Trarre le conclusioni di un viaggio su un binario morto: la fine del pensiero fondante. Il pensiero non fonda proprio nulla né tanto meno il mondo. Il pensiero del mondo è un altro affare. Più gustoso e raffinato, fa parte di un gioco illusorio in cui il cosiddetto pensiero non c’entra nulla. E’ il non pensiero o meglio il pensiero che non pensa nemmeno il non-ente, il pensiero che vuota di sé, se stesso e il suo oggetto, che rimanda al miraggio il suo compito ingrato, che pensa il non oggettivabile, il non essere delle cose, che vuota la realtà, la falsifica, la rende pura finzione. Come fa la farfalla che nega, rende inefficace l’attrito dell’aria zig-zagando disordinatamente, e secondo un percorso puramente immaginario non pensa la sua meta, - (il fiore) -, semplicemente la raggiunge posando-vi-si: cioè filologicamente, posando sé stessa(si) sul luogo(vi). Come dire che fenomenologicamente la cosa avviene nella relazione fondamentale tra la farfalla, il fiore, il movimento di moto browniano nello scenario vuoto del tempo e spazio. E’ come se fosse (l’io) una macchina cibernetica e il mondo una meta macchina cibernetica, in un multisistema di meta comunicazione.

Per dire il nome di una cosa, -afferma Dinnaga anticipando di molti secoli De Saussure e Benveniste-, (*G.D’Ottavi: De Saussure e l’India. Genève, Colloque Rèvolution saussourienne) - bisogna dire non cosa, in quanto cosa esprime tutto ciò che la esclude. Se questo è il pensiero del Buddha, il pensiero di ciò che non è pensato, non oggettivato perché non oggettivabile, allora il Risveglio della mente ordinaria è l’acuirsi dentro uno zoom folgorante delle quattro dimensioni dello spazio e del tempo. E’ un neurone-specchio di una infinita serie di intervalli, un perfetto rifrangersi della luce in un diamante. Di conseguenza entrambe, la farfalla e il fiore, pura apparenza, non sono necessarie e quanto meno sono infondate. Non c’è nel pensiero della farfalla e del fiore nessun ente-esistente che possa fondare l’esistenza del fiore e della farfalla; la visione-occhio-pensiero- può solo contemplare la loro bellezza. La volontà di potenza, il desiderio di pensare, di potere surdeterminare l’esistenza dell’Altro, non può essere né ente, né esistente. Può al massimo ideare un codice sequenziale a n soluzioni. La potenza del non pensiero e del non pensato è invece nell’ordine della potenza di una potenza. Omega potenza di omega: ΩpΩ.

Perché esso stesso , il pensiero pensante,non è ne ente ne esistente, ma  solo sottile immagine di un sogno, il selem e il demuth di biblica intuizione, immagine e somiglianza, corpo e ombra insieme, cioè corpo, (un lato e l’altro lato di un corpo, zakar u-neqevah, maschio e femmina), di una proiezione immaginaria, di una relazione fotoscopica, di un prendere da un miraggio, la cui dimensione non è creata e increabile: essa immagine di questa relazione, semplicemente appare, come pura virtualità. Un essere- (il tutto apparente, il sempre eternamente esistente, l’aiòn dei Greci) - una semplice veritas, un warheit, un’apparenza, un avverarsi breve ed irreale. Scrive Heidegger, in un sussulto di pensiero antimetafisico: “All’improvviso ci troviamo di fronte ad un albero fiorito. Siamo lì davanti all’albero ed esso ci si presenta a noi” (Cosa significa pensare,1954). Dunque il sogno di potenza del pensiero fondamentale non si realizza se non nella sua frustrazione, nel conflitto tra immagine e immagine della realtà. La sua somma, - (la somma dell’immagine apparente e dell’immagine percepita-), un’addizione a risultato zero. E’ letteralmente un incubo. Quindi l’unico pensiero possibile è la resa del pensiero stesso, il suo arrendersi come cosa tra le cose. La vicinanza può essere il suo orizzonte, la prossimità, -il suo essere prossimo-, il suo essere pensiero come limite di un vincolo; la sua libertà, la sua servitù. Essere solamente, come lo era all’inizio della speculazione antica, - (precedente alla sistemazione platonica ed aristotelica) -, un legame, un legamento logico. Essere legamento logico, intersezione, di un più vasto reticolo che veicola la conoscenza, come fa il sangue, il sistema arterioso con tutto il corpo.

Come si fa a distinguere il bulbo oculare dal suo reticolo e dalle sue connessioni col cervello? L’organo dal corpo e il corpo dal resto della sua abitazione, il pianeta intero?

Già una notazione di Leonardo da Vinci paragona il corpo umano, il suo reticolo, al corpo e al reticolo di tutta la terra. Per non parlare di quella vastissima ricognizione della capacità di sentire, di percepire la realtà descritta da Condillac (1715-1780) nel suo trattato “Sull’origine delle conoscenze umane”. Scrive J.Derrida nella sua lunghissima prefazione al testo di Condillac:” Alla metafisica delle essenze e delle cause, Condillac propone da subito di sostituire la metafisica (l’inconcreto) dei fenomeni e delle loro  relazioni.” (Essai sur l’origine des connaissance humaines, prèface pag.15). Detto sinteticamente e mirabilmente dal maestro zen vissuto intorno al XIII d.C. in Giappone, Dogen zenji, in Yuibutsu-yobutsu:” L’intero mondo è il Dharmakaya del se e del non se.” Di una identità e di una non identità.

Il suo vagare, il vagare del pensiero, il suo incespicare in ogni ostacolo del reale o dell’immaginario, come fa l’acqua del ruscello che scorre lungo le balze, dunque è il suo sentiero, il suo attendere la sua realizzazione, il suo sostare la sua inabitazione. Il misterioso, il suo luogo inconsistente. E dentro questo essere pensiero che pensa il vuoto come inesistenza di ogni luogo ma solo come legame avverbiale -un tra-, la sua infinita potenza, la sua coscienza assoluta. Pura evanescenza. Tutta la metafisica e la fisica del mondo così come l’Occidente l’ha pensata, è dunque un immenso, paradossale errore di interpretazione.


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