Come scrivere un capolavoro: Giuseppe Berto e "Il Male Oscuro".
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Come scrivere un capolavoro: Giuseppe Berto e "Il Male Oscuro".

diElisabetta Baldisserotto

Giuseppe Berto (1914-1978) è da una decina d’anni uno scrittore affermato, anzi famoso (il suo romanzo d’esordio Il Cielo è rosso del 1947 ha vinto il Premio Firenze ed è un successo internazionale), quando viene colpito dal “blocco dello scrittore”. Arrivato al terzo capitolo di un nuovo romanzo, lo lima fino alla perfezione ma non riesce ad andare avanti. Si è messo in testa di voler scrivere un capolavoro che dovrà riscattarlo dalla delusione per la freddezza con cui sono state accolte due sue opere precedenti, Le Opere di Dio (1948) e Il Brigante (1951) e che dovrà ripagarlo della sofferenza per il definitivo ostracismo dell’intellighenzia romana a seguito della pubblicazione di Guerra in camicia nera (1955). Già considerato di destra per aver combattuto come volontario nella guerra in Abissinia e in Libia e mal tollerato per il suo carattere polemico, Berto si ritrova escluso dai salotti letterari dell’epoca e ignorato da critici. A ciò si aggiunge il dolore per la morte del padre con cui ha sempre avuto un rapporto conflittuale.

 

Lo scrittore si ritrova tormentato da attacchi di panico che gli impediscono di restare solo in una stanza, di attraversare la strada, di salire oltre il quarto piano di un palazzo. Non prende ascensori, treni, aerei, navi e se c’è traffico, nemmeno l’auto. Soffre di dolori acuti al colon e al torace e vive nel terrore del cancro, dell’infarto, della pazzia. Soprattutto scopre una paura a lui finora sconosciuta: quella di scrivere. Inizia un pellegrinaggio da un medico all’altro e da una terapia all’altra finché non gli resta che scegliere tra l’elettroshock e la psicoanalisi.

 

Per salvaguardare il suo cervello “che non si sa mai che un giorno o l’altro non riesca a scrivere un capolavoro” e più per disperazione che per convinzione, si decide ad andare da uno psicoanalista, di quale scuola non gli interessa, unica condizione importante è che sia un uomo probo e onesto. Gli amici gli consigliano Nicola Perrotti (1897-1970), personalità di primo piano della psicoanalisi italiana, fondatore della SPI (Società Psicoanalitica Italiana) che, di primo acchito, lo delude. “Mi trovo davanti un vecchietto – scrive Berto – poco alto di statura e tutto sommato miserello come corporatura il quale mi guarda in modo aperto e accattivante però (…) solo per dirmi ‘si accomodi’ tira fuori un bell’accento meridionale (…) e io non sono preparato a un meridionale”. Presto, tuttavia, si ricrede, conquistato dallo spessore umano di Perrotti, tanto da affermare: “Ad ogni modo il punto di forza della psicoanalisi non è tanto la dottrina quanto l’analista. Io ebbi la fortuna di trovare un uomo straordinariamente buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso. Egli mi aiutò a uscire senza eccessivo sconforto dalle crisi più brutte del male, mi condusse gradatamente  a guardare dentro me stesso senza paura o vergogna perché qualunque cosa ci avessi trovato sarebbe stato sempre qualcosa di attinente all’uomo”.

 

Grazie all’analisi con Perrotti che gli consiglia di lasciar perdere il romanzo incompiuto per tentare qualcosa di nuovo, Berto riprende a scrivere senza pretendere di partorire un capolavoro ma cercando solo di arrivare alla fine, senza fermarsi. Nasce così il racconto della sua malattia scritto con un linguaggio fluido e avvolgente, con pochissimi segni d’interpunzione, impeccabile nell’uso delle subordinate e della consecutio temporum. Si tratta di uno stile innovativo, che lo scrittore stesso definisce “psicoanalitico”, perché adotta come sistema narrativo la tecnica delle libere associazioni: “Periodi interminabili che corrono per pagine e pagine senza punti, con pensieri che si collegano l’uno all’altro in apparente libertà (…) ma con un costante desiderio di ordine, di chiarezza”. Il risultato è un romanzo che raggiunge vertici di sincerità e profondità inauditi e, per l’epoca, spregiudicati. Un romanzo caratterizzato da un umorismo che non emerge solo a tratti, ma serpeggia costantemente anche quando il male oscuro picchia con particolare violenza. “D’altronde un nevrotico – dice Berto – non potrebbe scrivere se non fosse sostenuto dall’umorismo: una fortuna in mezzo a tanti malanni”.

 

Giuseppe Berto non guarisce mai del tutto, guarisce però per quel tanto che voleva disperatamente guarire, ossia non ha più paura di scrivere. E come scrittore trionfa: Il Male Oscuro esce nel 1964 per Rizzoli, vince il premio Campiello e il premio Viareggio, ha un successo clamoroso ed è tuttora considerato il suo capolavoro.





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