Sciascia, Pasolini e la generazione del ’56
Disegno di Eleonora Liorsi

Sciascia, Pasolini e la generazione del ’56

diRiccardo Renzi

Contro la mutazione antropologica, per un pensiero libero.

Il 2021 ha segnato il centenario della nascita di Leonardo Sciascia, il 2022 quello di Pier Paolo Pasolini e il 2025 i cinquant’anni dalla morte di Pasolini. Due figure diversissime per temperamento, poetica e orizzonte ideologico, ma unite da una straordinaria contiguità di visione e da un sodalizio intellettuale che attraversa trent'anni di storia culturale italiana. Non è un caso che fu proprio Pasolini, con una sensibilità già allora eretica rispetto alle mode del tempo, a cogliere nei primi scritti di Sciascia non soltanto l’eco di un impegno civile, come facevano molti, ma soprattutto una finezza letteraria, una cura formale che sfuggiva ai più. Questo primo riconoscimento fu l’inizio di un legame non privo di differenze – anche radicali – ma sempre sostenuto da una profonda sintonia morale. Oggi, nel tempo sbiadito dell’omologazione, della parola facile e della verità liquida, i loro nomi sono spesso ridotti a icone celebrative, depurate di ogni asprezza. È forse questa la più crudele delle rimozioni: ridurre i grandi intellettuali a statue da commemorare, per non ascoltarne più davvero la voce.

Pier Paolo Pasolini è stato l’ultimo, grande intellettuale “contro”, un’anomalia vivente, scomodo a destra e a sinistra, irriducibile a qualunque schema ideologico. La sua opera – che si estende dalla poesia alla narrativa, dal cinema al giornalismo – è tutta attraversata da un'urgenza morale e da una volontà di testimonianza che lo rendono ancora oggi attuale, benché inattuale. Anzi, è proprio nella sua radicale “inattualità” che si rivela il carattere profetico della sua figura. La sua lettura della modernizzazione italiana non è mai stata una semplice nostalgia per il mondo contadino o per le culture subalterne travolte dal boom economico. Piuttosto, Pasolini ha cercato di denunciare – con toni a volte apocalittici – quella che chiamava «mutazione antropologica»: una trasformazione profonda, non solo dei costumi, ma della struttura stessa della coscienza collettiva. La società dei consumi, secondo Pasolini, ha operato una distruzione sistematica delle culture particolari, regionali, popolari. Questa distruzione – che lui definisce un «genocidio culturale» – è stata promossa non da un potere esplicitamente repressivo, bensì da un potere apparentemente liberale, tollerante, persino progressista, ma in realtà più invasivo di ogni totalitarismo passato. Nelle pagine di Scritti corsari e Lettere luterane, Pasolini introduce la fondamentale distinzione tra “sviluppo” e “progresso”: il primo è inteso come crescita puramente economica, spesso guidata da interessi capitalistici e produttori di beni superflui; il secondo, invece, è una categoria etica e politica, legata all’elevazione culturale e sociale dell’essere umano. L’Italia, secondo Pasolini, ha conosciuto uno sviluppo senza progresso. Una modernizzazione priva di anticorpi morali, che ha distrutto senza creare, svuotato senza sostituire.

«Nessun fascismo storico è stato in grado di penetrare l’anima del popolo italiano quanto il nuovo fascismo della società dei consumi», scrive Pasolini. Il fascismo tradizionale imponeva una divisa, una retorica, ma non riusciva a trasformare l’intimità delle persone. Il nuovo potere, invece, agisce dall’interno, grazie a strumenti come la televisione, l’industria culturale, il linguaggio mediatico semplificato. Pasolini denuncia una forma di potere invisibile ma assoluto, che non impone attraverso la coercizione bensì attraverso il desiderio. La libertà è solo apparente: il permissivismo serve a far accettare senza conflitto l’ideologia edonistica del consumo. L’uomo non è più cittadino, né lavoratore, né credente: è consumatore. Non si tratta, tuttavia, di un rifiuto cieco della modernità. Pasolini è lucido nel distinguere tra questa modernizzazione e un’altra modernità possibile, più giusta, più equa, in grado di coniugare sviluppo e progresso. L’errore della critica che lo ha bollato come “reazionario” è di non aver colto la dimensione progettuale del suo pensiero: in Sviluppo e progresso, ad esempio, emerge l’idea di una società alternativa, costruita su altri valori, altri modelli di convivenza, altri linguaggi.

La forza di Pasolini – e di Sciascia – non sta solo nella loro individualità intellettuale, ma nella loro appartenenza a una generazione storica ben precisa. Una generazione, quella nata nei primi anni Venti, che ha attraversato la guerra, la resistenza, il dopoguerra e la crisi del comunismo togliattiano, approdando a un’età matura fatta di disincanto ma anche di straordinaria creatività. È la generazione del ’56, segnata dal XX Congresso del PCUS e dalla repressione sovietica in Ungheria, che segna la fine delle certezze ideologiche e l’inizio di una stagione di solitarie e coraggiose scommesse intellettuali. È la generazione di Calvino e Berlinguer, di don Milani e Danilo Dolci, di Basaglia e Goliarda Sapienza, di Francesco Rosi e Emanuele Macaluso. Figure molto diverse, spesso in contrasto tra loro, ma accomunate da una tensione etica e da una sete di giustizia che oggi sembrano scomparse o neutralizzate. È in questo contesto che vanno riletti Pasolini e Sciascia, non come giganti isolati, ma come vertici di una rete intellettuale che ha provato a resistere alla banalità del male e al conformismo del benessere.

Se Pasolini ha incarnato la figura dell’intellettuale profetico, isolato e tragico, Sciascia ha seguito un percorso apparentemente più misurato, ma non meno radicale. La sua scrittura, segnata da una lucidità razionale e da una grande attenzione alla verità storica, ha scavato nelle pieghe più oscure della società italiana, dal caso Moro all’enigma dell’antimafia, smascherando ipocrisie e ritualità. Eppure anche lui, come Pasolini, è stato accusato di “moralismo”, termine che oggi viene usato per neutralizzare qualunque forma di pensiero critico. Invece, ciò che emerge dalle opere di entrambi è l’opposto del moralismo: una tensione morale, certo, ma mai dogmatica. Una ricerca inquieta, mai soddisfatta, sempre pronta a mettere in discussione sé stessa. Il loro comune destino è stato quello dell’incomprensione. Troppo complessi per essere incasellati, troppo eterodossi per essere celebrati senza tradirli, troppo autentici per essere imitati.

In un’epoca in cui le celebrazioni culturali si riducono spesso a operazioni retoriche o a facili santificazioni, ricordare Pasolini e Sciascia non significa imbalsamarli, ma restituire alla loro opera quella carica esplosiva che ancora oggi può interrogarci, ferirci, costringerci a pensare. Non è più tempo di commemorazioni: è tempo di genealogie. Occorre ricostruire le reti, i nessi, i dialoghi, i conflitti che hanno attraversato una stagione irripetibile della cultura italiana. Una stagione in cui la letteratura non era evasione, ma sfida; in cui il cinema, la poesia, la politica erano forme della stessa urgenza. Pasolini e Sciascia non sono due solitudini eroiche: sono due stelle polari di una costellazione dispersa, la generazione del ’56, che ha saputo unire pensiero e azione, denuncia e visione, critica e speranza. Il loro centenario, allora, deve diventare un punto di partenza: per pensare di nuovo la libertà, per immaginare ancora una volta il possibile.

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