Deve esserci per ogni cosa il rito adatto
Giuseppe Letizia, Le due metà, pietra leccese

Deve esserci per ogni cosa il rito adatto

diDiego Riccobene

Pensieri e appunti sull’Elettra di Hugo von Hofmannsthal

 

Mach keine Turen auf in diesem Hauf!1

 

Non aprire mai porte in questa casa! Intima così Elettra all’incauta sorella Crisotemide, sul punto di rivelarle il tristo destino per lei ammannito dalle volontà materne.

Azione ed inibizione. Il dramma profuso dai versi adamantini della tragedia di von Hofmannsthal non diciamo si risolva tutto in questa dicotomia, ma sembra abbeverarsi coi palmi ben protesi e gola riarsa alla fonte dionisiaca che è la volontà di potenza. Frustrata, certo: siamo ai margini del décadent, e non mi pare fuori luogo rammentarlo.

Nella forza espressiva dell’opera, nella tornitura ritmica che l’autore è riuscito a scolpire di sagacia euripidea e adornare pure di umbratile umore austroungarico (perdonateci la libertà, che ci sembrava doveroso qui prendere), si annida certamente l’urlo agnostico di chi non si sottrae alla sofferenza scritta sui cenci delle Pizie, ma che sa odiare l’alta volontà come se fosse la palude definitiva2 in cui sguazza l’umano tentativo profuso nel perimetrare le forme del mondo terreno e ultraterreno.

Trapasso definitivo, dunque, del tentativo romantico? La questione posta da Hofmannsthal in Elettra è assai più cogitabonda; più contemporanea, in altre parole, di quanto si possa pensare.

In primo luogo, si tratta di un fatto di sangue3. Sacrifici innumeri sono oggetto del deviato culto praticato presso Argo (“e scanna, scanna, scanna offerte e offerte?”), come unico pegno in seno al quale i “tremendi invisibili” potessero essere placati. “Tremendi”: sarebbe utile rammentare come Rudolf Otto si esprime intorno al termine suesposto4, definendo la percezione di orrore ancestrale che si manifesta al contatto col miracolo divino; nulla, così dice, che abbia mai a che vedere con qualsiasi timore di origine naturale o più segnatamente “razionale”.

Elettra vive di strappi, di percussioni facinorose che suonano dalle bassure di un mondo archetipico e che, proprio in ragione di se stesso e del suo operare dall’ombra verso la forma, inaugura un sodalizio lungo e proficuo con Strauss in ambito librettistico; ma i protagonisti, i calchi umani che si dibattono alla grottesca ricerca di un segnacolo quale che sia, vissute le abissanti spire dello spazio interstiziale, ritraggono, dopo, il morso nell’onta della non-attuazione – dell’incapacità di attuare, anzi, per manifesta caducità; lesione e debolezza incarnate.

Ciò che ci attrae, l’epékeina testimone dell’oltremondo, è fattrice dell’agire tragico e del percepire – inerme – del fruitore: i cavalli presentono la morte, il fatto di sangue che tende al compimento del fatto arcano (e nella morta aria nitrendo muoiono) e del prolasso, infine, della vanitas come ammasso intenebrato di voci e scricchi: Gli dèi non sopportano il troppo chiaro squillo della gioia.

Scolpire la sintesi del vuoto, la prestanza della ir-ragione: non stupisce considerare come, realizzato siffatto cimento, Hofmannsthal approdi alla stagione della piena e consapevole maturità stilistica, seppur acuminando il punteruolo del dolore con meno torbido intento di quanto in precedenza avesse fatto.

C’è dell’altro, tuttavia. Clitemnestra (personaggio ossessionato dalla rilevanza della sua colpa talché trovasi per l’intero corso degli eventi in uno stato di perenne catatonia, come un paziente appena licenziato da protratte sedute lobotomiche e assuefazioni ipnotiche) si rivolge alla figlia confidandole i sogni che tormentano le sue notti: Ci sono i riti. Deve per ogni cosa esserci il rito adatto. Sorprendentemente saggia, la madre regicida comprende una piuttosto evidente verità sprigionatasi dal dramma: ogni fatto invisibile, nella sua natura biforcuta, esige attestazione di forma, rigore esecutivo di parole e silenzi, ma pure di gesti e posture. Iniziamo così a meglio a spiegarci il perché Elettra dissuada con vigore la sorella dall’aprire le porte del palazzo: la soglia che conduce da una stanza ad un’altra è luogo esoterico, manifestatosi tale nel momento in cui essa stessa sia varcata e la volontà compiuta, a forza.

Non si può mediare lo spirito fuori dalle forme: questo inquisito rigore ci porta a comprendere l’attuazione della vendetta, quella di Oreste, come inevitabilità di un rito in fieri, che il nulla deve officiare a nome d’odio e d’amore, testimone dei gesti e dei confini etico-ontologici che gli stessi vogliono superare. Elettra rimane sulla porta mentre tutto accade, ancora inerme, eppure “beata”.

Ci piace pensare a un filo proteiforme che la lega la Pentesilea di von Kleist mentre si adorna di ghirlande nell’ossessione d’amore erotico e incontra infine il traviamento nella parola, inganno per sorte e natura (Che io possa sciogliere l’intera ghirlanda dei mondi5. La folle, romantica, Pentesilea). Parrebbe, al contrario, che Elettra abbia preferito all’abbandono tempestoso l’esattezza dei gesti cerimoniali e della testimonianza, per giungere, solo a vendetta compiuta (non dalle sue mani, beninteso) alla vera celebrazione festosa di un mondo che non è l’idillio sperato, non lo sarà mai: non esiste infatti facoltà umana che possa averne ragione o merito.

Lo stupore si deve dunque manifestare, ma non è più quel sedimento romantik in naturale acquiescenza; si tratta, come prima si diceva, del tremendum della contorsione estatica declinato all’adatto rito; lo scandire sacrificale. La chiusa, pertanto, non può che coincidere con l’emersione della danza menadica, come adito finale a una forma che si compie e che chiede ascolto e raccoglimento.

Taci e danza. Il rito è compiuto – e noi non siamo accolti nel suo mistero, non ieri, non oggi.



[1] Il testo in lingua originale dell’opera fa riferimento all’edizione Garzanti, la stessa da cui è tratta la traduzione di Giovanna Bemporad, qui riportata in sede di citazione. Cfr. Hofmannsthal, Elettra, Garzanti, Milano 1981

[2] Ci permettiamo qui una citazione manganelliana, che data la natura dell’opera trattata pare essere, oltreché etimologicamente acconcia, pure non stonata concettualmente.

[3] Si prende in considerazione qui l’analisi esposta in sede di prefazione a opera di Gabriella Benci, sempre per i tipi di Garzanti. Cfr. Hofmannsthal, Elettra, op. cit.

[4] Cfr. R. Otto, Il sacro, SE, Milano 2009.

[5] Nella traduzione in prosa di P. Capriolo per l’edizione Marsilio. Cfr. H. von Kleist, Pentesilea, Marsilio, Venezia, 2008


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