Dialoghi / Carlo Ragliani e Diego Riccobene
Foto di Salvatore Ruggiu, Saltimpalo

Dialoghi / Carlo Ragliani e Diego Riccobene

diCarlo Ragliani



DIALOGHI


È cosa atroce, come una notte senza sonno, intuire dall’aldiqua, l’aldilà, ossia

l’Altro, l’opposto presente in me. Si insinua come una febbre, come una nebbia

venefica.”

C. G. Jung, Il libro rosso. Da Liber secundus, cap. II - Il castello nel bosco

                                                                                               

Carlo Ragliani

Diego Riccobene


D.R. La Poesia, nella sua stessa concezione ontologica, non potrà dimenticare l’eventualità, concatenazione di phainomai: essa li nomina, li preserva dalla mistificazione tramite l’evocazione, in un certo qual modo, anche laddove non si ponga obiettivi di mimesis. Fin dalle epoche aedico/rapsodiche all’esametro dattilico era indotto il compito di custodire l’essenza delle “cose”, in quanto primi e ultimi riferimenti che perimetrano l’uomo.

E se questo è l’assunto, la parola poetica
nei suoi accidenti si dovrà porre per accettare lo iato nell’alveo di siffatto perimetro. L’ossimoro sorgivo è quello dell’Io aderto a testimone di una caduta che s’è data dislagando dai confini auto-stabilitisi in natura, fuori dal sé, nel tentativo di stabilire un contatto altro e fecondare la ricerca di qualsivoglia risposta al verbo incipitario, che è sempre alieno: ci si protende dunque alla regione della “non-vita”, negazione dell’Io come “anti-umano”, ovvero dis-umano. 

La funzione più plausibile che innerva la poiesis dunque accoglie l’alterità da l’attante poetico e la vuole affrontare a denti stretti, per riallacciare i rapporti con la Morte e ricostruire l’unica via percorribile d’accettazione del percorso esistenziale. 

Materiare l’ossimoro corrisponde al muovere i passi lungo quella crepa in cui s’invesca lo scontro antitetico (e anti-etico?) per eccellenza, tra Vita e Morte, infine; crepa onde fuoriesce il siero più denso, la scaturigine dell’inconosciuto e dell’inspiegato: ciò che solo il Sacro può giustificare appieno, quale che sia l’officio di sacertà eletto. 

Se dunque il canto si pone come allaccio tra alto e basso, esso avrà altresì l’onere di affondare le sue propaggini nello sporco della crepa stessa, laddove l’orrendo soggiace, così come l’osceno, intese come forme non già da perseguire, ma da con-seguire. Perdura in uno scavo contamente verticale, che abiuri l’orizzontalità, e faccia sì che l’elezione al Bello e al Giusto non prevarichi la necessità di sostanziare il “dis-umano” in quanto riconoscimento demiurgico testimone del sé di una negazione irrimediabile e talora soverchiante. 

C.R. Deferor hospes: l’arte è un atto di sedizione, una congiura ordita nell’assurdo. Il suo tempio è il terrore. La sua liturgia è la carne. Il suo offertorio, sangue. Perché nulla di quanto sia nato non sarà destinato alla morte, né quanto trapassato non è mai stato trafitto dalla percezione che non sarebbe stato destinato a trapassare.

Deinde, la parola muove dall’urgenza di oscurità che sostanzia il nucleo percettivo dell’oltre, ed il verso si indova nell’orrore dell’umano di dover assistere allo splendore e al supplizio della propria flagellazione quotidiana, senza poterne vedere la fine.

La poesia deve ardere nella ferita insanabile dell’imperfetto, e non più pontificare tra le distanze; non nel nostro tempo, almeno. Quali distanze, poi? L’unità di bianco che esiste solo perché non è unta di inchiostro, oppure quella parzialità nera che esiste in quanto impressa? 

Il canto poetico non può gettare funi e fondare passaggi; perché bruciare è il suo dovere, anche richiedendo uno sforzo dove la logica e la razionalità vengono meno. Al dire spetta di innestarsi per gli assoluti, cedere all’istinto di comporre l’empio di quanto (ritenuto) più innaturale per sfamarsi del tragico, dimorare l’atro del cuore trafitto, e deporne infine testimonianza estatica. 

L’ossimoro di immergersi in quanto più compete il contrappasso sarà l’esercizio nella catabasi dell’anima. Ciò comporta che il semantema, nel suo disporre un assoluto, lo sostanzia per renderlo catastematico nel superare la finitezza infinita dell’opera ― e lo consegna tanto all’eterno della vita che rimane appresso alla morte, quanto all’esperienza che supera il facere del lessema nell’oscurità del significato come ritorno alla apocatastasi, così desiderata e disperata.

Un atto di fede totale che cancella l’umano, e lo erode perché lo sintetizza nell’ateleologia e nell’ontologia; e lì lo giustifica nell’atropo e nel non-evitabile, nonostante la parola possa solo quantificare e qualificare approssimativamente, producendosi per vocaboli generati dalla miseria di essere miserabili epifenomeni nella loro natura compromissoria.

D.R. Se l’ossimoro guida il poeta, la frattura è insanabile ma non insondabile: Sopprimiamo il Verbo nell’arsura”. Lo stesso Baudelaire aveva ciò profetizzato inoltrando il suo condannato sans lampe a percorrere scale prive di appiglio, nel buio di un percorso, lo ripeto, verticale. 

La condizione ingenerata dalla ferita che produce l’uscita, il riconoscimento, è pur sempre tragica: la poiesis, qualsivoglia forma d’arte invero, esperisce la tragicità dell’ontos per poterla pro-ferire. Non esiste arte che non sia intessuta di tragicità. 

Tragedia è termine che qui demanda concetto e forma, il “canto del capro” disperatamente ditirambico, eppure la forma di “tragico” riconosciuta aristotelicamente come la più sublime: queste le radici cui avviluppare l’ossimoro, che ignori gli assoluti, non li voglia tergere di omertose promiscuità; si tratta, pertanto, di instillare vita e morte nella parola per farla intonsa e credibile, perimetrata nell’in-perimetrabile, talché il verso colpisca nel petto la certezza che ciò che facciamo abbia la minima ombra di consolazione. Si nasce turpemente e tali si finisce: se non sono i poeti a dirlo, questo, chi mai potrà farlo?

C.R. Se il poiein è il fare, ed il dire parimenti, dunque la poesia non può eludere la realtà dei fatti: dire che siamo tutti mortali non è che enunciare un truismo, una ovvia verità sulla quale tuttavia si innalzano le più grandi opere che l’uomo abbia saputo comporre.

Tuttavia, è spingere le mani dentro l’esistenza per capirne le trame quel che è atto dovuto; e confinare la genesi del verso in un senso ipogeo cinicamente spietato, per poi possederlo nel corpo. In fondo, anche l’Onnipotente sortisce il sordido della vita per le carni del Figlio, conoscendone la fine.

Questo sia l’Opera, nel senso più vasto e profondo: confrontarsi con l’abissalità quotidiana, recuperare ex ore leonis un verso, una parola che spesso non ha una motivazione ― né sa di poterla avere, perché non è nella possibilità di saperlo.

Sia quindi anche l’assurdo ab-errante, il contrasto ossimorico della logica che si sgretola nel sacro compartecipativo all’orrore, la tragodia che rende disumani, e costuma secondo la pelle ed il lamento di capra a costringere le realtà.

Per non più esorcizzare ciò che non può esserlo, né edulcorare la via della carne; ma per soppesarne la totalità non assecondando tensioni morbose, né anche concedendo spazio a ragioni in ultima istanza consolatorie.

[...]


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