Dolore e maniera su carta: Il diario impuro di Sonia Caporossi
Salvatore Ruggiu - Bosa

Dolore e maniera su carta: Il diario impuro di Sonia Caporossi

diFrancesca Del Moro

Dolore e maniera su carta: è da questo verso, a mio avviso cruciale, che si potrebbe partire per tentare di offrire alcune chiavi di lettura a un libro tanto complesso e incandescente.

Dolore: parola che ricorre dodici volte nei versi, sorta di interlocutore privilegiato, compagno accarezzato nel raccoglimento baudelairiano, rifugio e specchio in cui guardarsi e riconoscersi. Dolore che è motore e al tempo stesso oggetto della cura che il libro persegue.

Maniera: vocabolo che ritroviamo solo in due occorrenze antitetiche. La maniera, ovvero lo stile inconfondibile di Sonia Caporossi, che abbiamo imparato a conoscere fin dalla sua prima pubblicazione di poesia Erotomaculae, poi approfondito con i successivi Taccuino dell’Urlo e, sfrondato dai parossismi, in Taccuino della madre, di cui questa raccolta rappresenta l’ideale prosecuzione. Uno stile che la colloca nel solco del contemporaneo sperimentalismo, il quale riconosce un ruolo di primo piano agli aspetti formali della poesia, portando all’estremo il libero gioco con le possibilità e le trasgressioni della lingua.

Sonia Caporossi fa da sempre suo questo approccio sotto il segno della contaminazione (o, per meglio dire, impurezza): si va dal plurilinguismo che prevede incursioni di greco, latino, tedesco, inglese, alla compresenza di registri diversi, dall’aulico al colloquiale, fino ad attingere a piene mani ai linguaggi settoriali (filosofia, astronomia, ottica, medicina, fisica, matematica, letteratura sacra). Gli aspetti metrico-ritmici sono minuziosamente curati, svecchiando elementi della tradizione come gli ottonari e l’uso insistito della rima mediante soluzioni formali contemporanee quali l’onnipresenza della lettera minuscola, incurante della punteggiatura che qui si sottrae alle norme tuttora in vigore, ad esempio raddoppiando sempre i due punti e talvolta collocandoli a inizio verso, utilizzando parentesi e corsivi in abbondanza per dare rilievo alle singole parole, nonché la disposizione mutevole del testo nella pagina (centrato, allineato a sinistra, a blocchetto, in una trama di pieni e vuoti che asseconda l’andirivieni del pensiero).

Maniera, o per dirla con le parole dell’autrice, la diversità di un percorso personale. Un percorso che si contrappone radicalmente all’altra accezione in cui compare il vocabolo, vale a dire la maniera artefatta e astuta dei pescivendoli del verso, che qui vengono colpiti a più riprese, e con riuscita ironia, dalla sferza di una satura montaliana. Avendo cura di trarsi in salvo dal mercimonio e dalle grette ambizioni di cui perfino un cristo troppo sincero potrebbe cadere preda, nell’abbaglio di una stretta antologica, di un abbraccio laureato o del listato inconcludente di una classifica di qualità.

E, infine, la carta: i fogli del taccuino che dà il titolo a questo libro e ai due predecessori e insieme dà il via al lavoro di autoanalisi, attendendo, scoperchiato sul lavabo, di accogliere ciò che la scrivente vede guardandosi nello specchio soprastante mentre si interroga su di sé, su questo io che purtroppo io sono (un riferimento alla filosofia post-strutturalista della statunitense Judith Butler) con la consapevolezza che non sono le risposte a contare davvero in un mondo impoverito di domande. Il taccuino, vale a dire il vecchio Moleskine spaginato deputato a ospitare ansie adolescenti, o ancora le pagine interiori che, uscendo allo scoperto, si fanno strumento di cura. Un diario, insomma, parola oggi più che mai bistrattata per l’equivoco che nasce dalla confusione tra la scrittura sciatta in genere tipica degli appunti privati e l’attitudine confessionale che, unita alla perizia formale, non ha mancato in ogni epoca di dare

grandi esiti in poesia.

Dalla Prefazione

Per prenotarlo www.terraduliviedizioni@gmail.com 


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