Federico Garçia Lorca - “Los Cristos”
Foto di Paola Casulli

Federico Garçia Lorca - “Los Cristos”

diSebastiano A. Patanè Ferro

Durante i suoi spostamenti per motivi di studio in Castiglia e in Andalusia, Federico del Sagrado Corazón de Jesús García Lorca, volle registrare i paesaggi che attraversava e le sue impressioni, in una sorta di diario che poi s’intitolò, appunto “Impresiones y paisajes”, il suo unico libro scritto in prosa,  attraverso il quale racconta di quei viaggi che fece quando era studente universitario, tra il 1916 e il 1917,  e che uscì nel 1918 a Granada, con la copertina, realizzata dal suo amico pittore Ismael Gonzáles de la Serna, la stessa riprodotta in questo libricino. Una raccolta di prose intrise di alta lirica dove condensa e mostra la sua visione romantica del paesaggio nonché  l’enorme sensibilità e la capacità di trasformare la parola semplice in severa poesia.

 

Lessi questo libro nel 1974, lo trovai edito dalla Newton Compton Editore, versione paperback, in italiano, tra-dotto da Claudio Rendina, che ritengo, assieme a Carlo Bo, tra i migliori traduttori di Lorca, ma anche di altri grandi autori di lingua ispanica quali Gongorra, Jimenez, Darìo, Alberti, Neruda ecc.

Posso dire con certezza che fu proprio da lì che cominciò questo mio percorso nella scrittura: quel libro mi aprì alle meraviglie delle strutture poetiche in maniera anche esagerata e quella che da ragazzino cominciava con una normale e semplice curiosità, si trasformò, ben presto, nell’urgenza di esprimere attraverso la poesia e la parola scritta in generale tutto il mio essere pensante e umano.

La visione lorchiana, ma della poetica ispanica in genere, mi prese così tanto che cominciai a studiare lo spagnolo per poter leggere quegli autori dall’originale, primo tra tutti lo stesso Lorca che elessi, sin da subito, a mio primo maestro.

 

“Impressioni e paesaggi”, raccoglie tutto ciò che agli occhi del giovane Lorca appariva poetico e, cioè, l’intero dintorno, quel nuovo che man mano gli si svolgeva davanti, per lui diventava immagine vincolante, disegno scenografico  e, infine, poesia.

 

Tra tutti i brani inseriti nel libro, però, uno mi ìm-pressionò  più degli altri, sia per il tema trattato, sia per la spontaneità con cui è descritto, si trattava di  “Los Cristos”,  una esegesi molto cruda ma sincera e, comunque poetica, del pensiero e delle sensazioni di Lorca davanti ai crocefissi nell’arte, ma soprattutto, della reazione che quelle immagini, per lo più sculture provocavano alla gente, al popolo credente.

Lui spiega senza mezzi termini come gli artisti, fino ad allora, avevano descritto il sacrificio di Cristo e di come si riusciva a manipolare, attraverso l’arte, il significato profondo e più vicino alla verità. Non c’era alcuna gloria in quel corpo deformato e scarnificato del Cristo, solo dolore che trasmetteva terrore; nessun riscatto per una “miglior vita” in quelle rassegnate contrazioni, solo terrore del peccato e del cadere in tentazioni, che a quello avreb-bero portato. D’altronde, lui stesso afferma: chi e come si può concepire la gloria nella sconfitta?

Eppure c’è ed è evidente, ma nessuno è mai riuscito e mai riuscirà ad esprimerla, né a rappresentarla, fin quando non si scinderà l’umano dal divino, perché, appunto siamo umani e non possiamo andare oltre quello.

 

Lorca nomina diversi pittori e scultori nel suo testo, artisti per lo più spagnoli: Mora, Hernández, Juni, el Montañés, Salzillo, Siloé, che hanno aperto un percorso diverso, allentando, anche se di poco, il terrore dell’agonia met-tendo (testuale)  “negli occhi, tutta la sofferenza di quel corpo ideale”,  quindi riportando alla pietà , l’orrore della “deformazione”. Precisamente il contrario di ciò che troviamo nelle crocifissioni del pittore, fotografo, scultore e grafico polacco Zdzisław Beksinski (1929-2005), dove il corpo viene completamente e orribilmente smembrato, probabilmente a simbolo del niente che quell’involucro rappresenta.

Beksinski fa del Cristo Crocefisso, non solo il racconto della guerra, delle devastazioni derivate dall’invasione nazista, di una Polonia sottomessa all’orrore, dell’uomo sacrificato alla patria ma non più glorioso, Beksinski riporta quell’icona a simbolo di una religione basata sul vecchio terrore dell’inferno, che rimane solo devastazione corporale, e questo, non solo con i “Crocefissi”, ma anche nel resto delle sue opere il cui carattere gotico non lascia dubbi.

Lorca, per certi aspetti, e per opposti motivi, lo identifica in Matthias Grunewald, il pittore tedesco che “più orribilmente dipinse la Passione di Gesù, l’ha fatto rendendo l'uomo troppo uomo, senza mostrare segni della morte di Dio.” (Cit.).

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