I passaggi poetici di Francesco Palmieri
Giampiero Assumma, 2_Moscow_2020

I passaggi poetici di Francesco Palmieri

diFloriana Coppola

Cos’ho da darti/ se non parole reduci/(e attriti, sfrego/ appunti di lavori in corso/ un alfabeto morse/ fra un oceano e il nulla)/ niente che tu non sappia/ di questi passi di trincea/ delle sortite e ritirate/ del silenzio certo/ a fine di parola/ormai noi lo sappiamo/ cosa sta davanti/ non una spiaggia o riva/ neanche più una terra/ per renderci felici

Emblematico questo testo poetico posto al centro della nuova silloge di   Francesco Palmieri “Passaggi, rabbie e altro” edito da Terra di Ulivi, un messaggio significativo della sua  poetica che spinge avanti una matura e inquieta miscela di malinconia e di indignazione. Depressione e rabbia sono facce della stessa medaglia, perché esprimono con forza quel senso di impotenza e di vanità che spesso è lievito del pellegrinaggio immaginale del poeta. Francesco Palmieri, docente di lettere, raffinato saggista, critico letterario, poeta e scrittore, indica con i suoi versi un cammino di riflessione esistenziale, composto da varie stazioni di passaggio. La sua scrittura meditativa non indulge in retoriche e erudite autocelebrazioni letterarie ma sottolinea con estrema convinzione il ruolo delicato e scomodo del fare poetico. Non più vate veggente, maestro illuminante  ma compagno incerto nella stessa fatica di vivere e di sopravvivere a se stessi. Scrivere diventa così una zattera per salvarsi in un oceano in tempesta, all’interno di uno scenario precario e instabile che coinvolge tutti. C’è un continuo interrogarsi che unisce le pagine, un incamminarsi tra gli altri con le parole cercate, selezionate e rese visibili  da uno sguardo disincantato e nostalgico verso un orizzonte oscurato da molte ombre. Come ricorda la lezione di Saba, la vita disegna la nostra fragilità di uomini e la poesia ricorda questo strappo doloroso dal grembo materno, da un altrove che rimane lontano e misterioso.  

nuda è la terra/ nudo il vivere/la preghiera non serve/ a coprire l’abisso/ e non c’è baratro/al crescere lento/ del tempo a finire/ all’albero spoglio/ nel gelo dei campi/ alle ali nere/spiegate in volo e presagio/… 

 La natura partecipa drammaticamente a questa lettura del destino umano. Echi montaliani emergono tra i versi.  Lo stesso male di vivere ritorna sottolineato  dalla profonda consapevolezza del vuoto e della solitudine, che emoziona e deprime chi osa cercare un approdo  alla condizione umana fatta di vacuità e impermanenza. Lo studio delle lettere non salva da questa percezione di transitorietà. Si vive in disarmonia con il mondo. Una prospettiva distopica che incrudelisce l’anima e tormenta. 

un giorno abbiamo avuto terre/ e mari/ un orizzonte vago/ un giorno abitavamo/ pianure sempre aperte/ e sentivamo battere/ il piede degli dei/ lasciavamo impronte/ a durare ere/ e pietra sacra e dura/ la stele nei millenni/ ed ora cosa siamo/ statuine in vetrina/carne confezionata/ per morire a breve.

Questo senso di perdita, di orfanità da un Eden antico ormai tramontato in modo ineluttabile, la disconnessione tra l’umano e il divino avvenuta con la modernità, con il precipitare di un equilibrio proprio del passato diventa grido disperato, scrittura amara del presente, proiezione dolorosa della propria interiorità disancorata da ogni utopia salvifica. Lo stile lontano da ogni schema tradizionale (  la rima, il numero di versi e la punteggiatura ) non si basa su forme raffinate e eleganti ma usa sintagmi brevi, frammenti di poche parole,  che si impongono grazie alla loro forza evocativa. La solitudine del poeta, il disagio verso i profondi cambiamenti sociali, il contrasto con la dimensione della visibilità narcisistica dell’immaginario multimediale, lo sfondo violento dei contrasti personali e internazionali si intrecciano alla visione altamente pessimistica del letterato, assolutamente isolato e in conflitto tra la realtà circostante e la sua atroce inguaribile sensibilità. Semplici, essenziali ma fortemente simboliche sono le analogie cercate dall’autore in una conversazione poetica accorata con il lettore, conversazione che passa dalla prima persona singolare a quella plurale, nel tentativo estremo di riscrivere l’alfabeto di un’appartenenza profonda,   mai data per scontata. E in questa fratellanza dichiarata a bassa voce si può scorgere la ricerca affannosa di una rifondazione  creaturale,  la scoperta di  un indice valoriale condiviso per  un effettivo ascolto dell’altro, segno di empatia e di comunione.

che ho fatto, mio dio,/ perché il mio viaggio d’eterno/passasse da questa stazione/ da questa sosta obbligata/ in una terra straniera/(e noi figli/ di una specie minore/ ad annegare in pozze d’azzurro/tra questo e quel cielo/ che non riusciamo a vedere)/ perché, mio dio,/ questo confino d’agonie e spaventi/ nel punto più cieco di un immenso e di stelle,/in questa prigione che ha il mare di fronte/ e la calma di onde che non si fanno toccare/( noi che siamo terra/mai/ avremmo dovuto/ alzare in alto/ lo sguardo)

Il poeta viene travolto  da un perenne movimento circolatorio, a volte ellittico,  dall’alto in basso, dalla terra al cielo, da una percezione orizzontale a una verticalità spirituale e in questo movimento  quasi ondulatorio descrive la sua inquietudine, che mai lo lascia e che consuma tutte le sue energie. Come Ulisse nel suo epico naufragio, metafora esistenziale inalienabile, Francesco Palmieri narra la sua odissea metafisica, provando a stanare ogni fantasma che lo affligge.


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