Il buon senso
Giampiero Assumma, 8 Berlin, 2016

Il buon senso

diTeresa Mariniello

Se dovesse guidarmi il buon senso non solo non dovrei varcare questa soglia, ma neanche avvicinarmi alla parte alta della città; dovrei restare qui nella parte bassa, nella mia casa nuova col piccolo giardino condominiale e, magari, guardare il fiume mentre i bambini giocano e le mamme un po’ li sorvegliano e un po’ chiacchierano. Potrei poi avviarmi verso la cucina, con grande finestra sempre sul fiume, e preparare la cena di stasera. Accendendo la radio. Non che l’ascolti con attenzione, mi fa compagnia tra i rumori delle pentole e lo scorrere dell’acqua. Poi certo, magari, potrei accendere due candele profumate da mettere a tavola perché ravvivino l’ambiente e l’atmosfera tra noi. Si sa che la convivenza è fatta anche di questo, rassicura e annoia insieme, a meno che non la si ravvivi con qualche gioco, o fatto insieme, pericoloso, o fatto da sola, con capacità di gestirlo.

Ne sarò capace? Non ho nessuna intenzione di incrinare questi giorni con lui, di lasciare la consueta riva d’acqua. Eppure qualcosa chiama. 

Non mi è bastato giocare con lui, ma a questo punto posso chiamarlo anche l’altro, per buona parte di un pomeriggio. La porta chiusa del suo retrobottega ci proteggeva, oltre potevamo scambiarci tiepide carezze, timide all’inizio. Tutto era iniziato per una esclamazione, la mia, a vedere una bellissima e piccola viola restaurata. Lui si era illuminato e piano, molto piano mi aveva sfiorato le labbra. Il brivido dell’ignoto mi aveva preso, non tanto però da lasciare da parte la consuetudine di essere a casa verso sera con la cena pronta e la faccia sorridente. Per lui, per mio marito. 

  “Sei più bella del solito, stasera.” Mi aveva detto entrando in casa. 

  “Sarà per la lunga passeggiata che ho fatto in città. Ho cercato, inutilmente, un vestito per la festa di cresima che abbiamo domenica l’altra. Niente…tutto così da vecchia. Pensa che sono andata fino in piazza grande e…ma che hai?” 

In realtà lo so, l’ho smorzato. Detesta queste mie divagazioni e le tollera solo davanti a un piatto di pasta oppure mentre monta qualcosa. In altri termini non gli interessano; in passato ci rimanevo male, poi le ho trovate utili quando volevo stare sola oppure volevo evitare qualcosa. In questo caso, un approccio sessuale. Non è il momento, devo almeno farmi una doccia e darmi un po' di tregua. Darsi licenza di peccare richiede un certo raccoglimento. 

Continuerò a parlare ancora, sia durante la cena che dopo. Lo stendo così, sarà costretto a darsi al suo bricolage. Ne son certa.

E già mi stanno tornando, inopportune, e mentre fingo di vedere la tele, le sensazioni provate con l’altro. Non voglio dirlo il nome, me lo rende più reale. 

Non so molto di lui, conosco il suo laboratorio di strumenti musicali, la perizia delle sue mani sui legni antichi, il tocco cauto nello stringere le corde; so che ha un piccolo appartamento, bello, dicono, e con terrazza proprio sul laboratorio.

   “Solo se vuoi.” Mi ha detto l’altro giorno. Ma si era fatto tardi e non sono esperta di tradimenti, ammesso che questo possa esserlo, e neanche di sensi di colpa che pare colpiscano spesso il genere femminile. 



E così, se dovesse guidarmi il buon senso, non dovrei attraversare la città a piedi, nel mio abito chiaro con fiori gentili stampati grandi sulla gonna e riproposti più piccoli sul corpetto che mi fascia la vita. I capelli li ho raccolti in una crocchia perché possa ancora baciarmi e mordermi il collo come ha già fatto. Mi ha già emozionato la sua risposta a telefono: “Sì? Ah, sei tu! Sono felice di sentirti... Oggi è giorno di chiusura del laboratorio, non mi troveresti, ma sono qui a casa. Passa, prendiamo insieme un caffè in terrazza. C’è un bellissimo panorama.”

Come se non lo sapessi che è giorno di chiusura…ho fotografato apposta il cartello degli orari per non sbagliare. 

E così salgo da lui, attraverso la stretta scala che parte dal cortile. 

Sulla soglia rallento il passo, calmo il respiro.

La porta è socchiusa, da direttamente sulla grande stanza che è anche cucina, di fronte è la terrazza. Da lì avanza un azzurro commovente per i solchi aranciati che sfumano nel rosa.

Entriamo nella luce e nel desiderio.

Il suo viso vicinissimo al mio. Quasi assorti i suoi occhi su me, mi raccontano di giorni e luoghi dove non sarò. I miei raccolgono il piacere. 

Il poi, è una morbidezza di respiro, un tremolio di acque tra ciglia mentre i corpi si acquietano e tra morbidi cuscini riposano. 

Lo guardo mentre dorme. È un uomo, nient’altro che un uomo. 

Resto sola nella luce che lentamente si smorza. Osservo le ombre sulle pieghe della stoffa che è rimasta aggrovigliata, quelle sulla frutta posta nel grande vassoio ora in bilico.

Mi ricordano un quadro visto a Desdra e i pensieri di allora.

Chi è quella donna rivolta alla finestra con una lettera in mano? Forse la giovane moglie di un mercante, imbarcato e lontano. Perché il contrappunto prospettico alla grande tenda verde è un tavolo ricoperto da un tappeto in parte scomposto, e con su un grande piatto con della frutta quasi rovesciato? E la luce, la splendida luce di Vemeer, apre o chiude il giorno? Mi sale un brivido a vederla così circoscritta. Come da paramenti.

Mi concentro sulla luce, netta e precisa, che entra nella stanza ora. Non reca traccia delle striature aranciate di prima. Così in me, mentre lentamente mi riassetto e mi aggiusto i capelli che lascio sciolti. Un filo di rossetto e sono a posto, mentre lui è ancora in bagno.

  “Scusa, forse ho impiegato un po' di tempo.” Mi dice guardandomi un po' stupito, mentre si accinge a preparare un caffè.

  “Ah…un caffè lo prendo volentieri. Sono uscita in fretta stamani da casa, avevo più commissioni da sbrigare. Per il bagno, non preoccuparti, è da quando sono ragazza che ho imparato che quando si sta in viaggio bisogna essere veloci.”

Mi guarda interdetto. “Come in viaggio? Questa è la tua città e spero che noi ci rivedremo ancora.” E si accosta mentre l’aroma del caffè si va diffondendo per la stanza. Me lo serve poi accostandomi sia lo zucchero raffinato che quello di canna.

“Grazie. Lo prendo amaro.” Lo gusto con piacere, lasciandogli poi sulla guancia un segno leggero del rossetto appena messo. 


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