Il catalogo di un sopravvissuto, breve incursione nella poesia di Alfonso Guida
Foto di Paola Casulli, Filippine

Il catalogo di un sopravvissuto, breve incursione nella poesia di Alfonso Guida

diAntonio Bux

Il tassidermista (Terra d’ulivi, 2022) prosegue con rinnovata maturità e precisione stilistica la seconda e recente stagione poetica di Alfonso Guida, autore lucano nato a San Mauro Forte (Matera) nel 1973. La parabola letteraria di Guida è in effetti complessa e variegata: ad una serie di plaquette iniziali, si succedono negli anni felici pubblicazioni dagli importanti esiti, a partire da Il dono dell’occhio (Poiesis, 2011), seguendo poi con il poemetto Irpinia (ivi, 2012) ispirato dal terremoto che sconvolse il territorio campano nel 1980, e ancora con L’acqua al cervello è una foglia (LietoColle, 2014), raccolta di madrigali dedicati, già si delineava un percorso unico nel panorama della poesia contemporanea. Percorso che poi si riaffermava con la “trilogia psichiatrica”, composta da A ogni passo del sempre (Aragno, 2013), Poesie per Tiziana (Il ponte del sale, 2015) e Luogo del sigillo (Fallone, 2017) che Guida pubblica negli anni a venire e che rafforza quella pulsione ossessiva e pregna di un movimento tellurico della lingua figlia di una completa adesione al reale del poeta, che accetta il proprio destino e ne scrive come un eterno diario in versi. Un amanuense dei giorni nostri, Guida, un uomo che ha accettato di vivere la propria eversione attraverso la scansione metrica del suo stesso sangue. E così la biografia del poeta diventa la sua poesia e viceversa (d’altronde anche Barthes ci dice che la biografia è l’unica storia possibile e confutabile). E la poesia di Alfonso Guida è per questo marchiata da una profonda umiliazione, e appare così nuda e così splendida in questo suo umiliarsi, in questo suo arrendersi alla terra, per l’appunto, che è impossibile non essere scossi da questo moto a raggiera dal quale traspare una vicenda umana sensibile e profonda (pare infatti un uomo d’altri tempi, Alfonso, prepotentemente rinchiuso nei suoi dogmi, così profondi e radicati, tanto da fare di se stesso una statua potente, un monumento del pensiero). Dalle sue scelte di vita, di sradicato anche essendo quasi sempre rimasto nel suo habitat naturale, è evidente la condizione di esiliato, di straniero nella propria terra. Ma questo esilio il poeta lo vive come condizione necessaria, come una missione alta, e non come una condanna auto-inflitta. E anzi diventa, il suo “essere esterno”, radice per l’interno che si nutre e da cui ne viene nutrito. E dicevamo, appunto, dell’umiliazione del poeta, intesa come estremo sentimento di pudore e di lotta, così come di sincera umiltà, che è l’aderenza a quel reale, a quell’humus del naturale, pur visto e vissuto da un “luogo neutrale” che il poeta abita e frequenta uscendo fuori di sé per rientrare nell’unico luogo del mondo (ovvero la morte). Ed è in questo luogo che parla la poesia dinamica, l’onda in versi di Alfonso Guida, dando una scossa, finalmente, a tutta la scrittura contemporanea italiana. E se il tratto distintivo della prima fase dell’esperienza letteraria di Guida è stato quello di fornire prove dall’impressionante rigore stilistico, volto quasi sempre a un dire endecasillabico, o da più agili prove in settenari o novenari cadenzati come fossero dei rosari quotidiani, in questa seconda fase la poesia del poeta di San Mauro sembra quasi distendersi, e dunque pare non cedere più alla tentazione solamente verticale ma, ampliando la sua visione, e dunque rafforzandola di “freddezza” e inalterata febbre vitale, prova la via di un quasi romanzo in versi che si scansiona con piena lucidità, esplorando una nuova genealogia poetica che l’autore ha da sempre forgiato su carta, rendendola ora però ferma e ondivaga al tempo stesso, come un orologio eterno che suona sempre su un secondo esatto. Difatti, sin dal primo libro di questa nuova “primavera” guidiana, Conversari (Round Midnight, 2020), ci si accorge subito del taglio netto che l’autore dà rispetto alle precedenti opere: il verso si allunga e poi improvvisamente si accorcia; il martello ritmico è più padrone del proprio scolpire; l’incedere non è più soltanto sincopato ma ragionato nel suo programmarsi senza più ostacoli metrici; così come l’interpunzione è essa stessa sia il respiro salvifico che la detonazione del fare prosodico. Ma, soprattutto, il canto è meno rabdomantico, ma non per questo meno lirico ed esiziale. E se in I penati (Gattogrigio, 2021) questa cella strutturale piena di magma e di riverberi sembra sciogliersi per un attimo, cedendo il passo ad una più “ecologica” cesellatura di versi volti a una rigenerazione, in questo ultimo libro gli esiti dei precedenti lavori confluiscono in una sorta di miracolosa alchimia, fondendo i due poli di osservazione fino a creare questa specie di opera melliflua, dove si addensano vari umori e registri (ci sono anche rare incursioni dialettali) che, come già dal titolo del libro si percepisce, forgiano in maniera assoluta il lavoro (o lavorio) del poeta, che in definitiva altro non è che un “vestitore di morti”. Ma per vestire questi morti (e i morti non sono solo persone o animali, ma anche i giorni e i pensieri che fissano i giorni), per truccarli dinnanzi alla morte, il poeta deve nutrirsi innanzitutto di spoliazione, di riduzione, di ossa e di sangue provenienti direttamente dalla terra. E quale gesto sia necessario per compiere questo lavoro con tanto nitore è presto detto: si deve amare forsennatamente la vita, la si deve vivere come eterna lezione che prepara l’uomo alla sua ultima (e prima) destinazione. Ed è incredibile come in Guida la precipitazione lessicale si faccia testamento di tutto questo, come il respiro sia il sottofondo di una preghiera infinita di assuefazione, mai doma, mai paga di vitalità e di redenzione. E come il racconto si faccia verso ineludibilmente, e così ineludibile spalanchi il chiaro, il rapporto col celeste e con la terra, in un tutt’uno con l’ossessione di essere vivi. Come in un’antica preghiera, come in atto estremo di umiltà, attraverso la penitenza dell’essere testimone del proprio (e altrui) lutto quotidiano, la poesia dell’autore lucano si modula attraverso questa continua litania, tramite questo passaporto sperduto verso la terra di nessuno; e viene così naturale immaginare il poeta mentre evoca la sua cantilena come in una ipnosi che scioglie i nodi del pensiero e li fa passaggio per “quell’oltre positivo”, che è la negazione del sentirsi soli, ma aperti, verso il varco dell’aldilà. Guida sembra così aver appreso definitivamente la propria lezione, approfittando dell’occasione di un’opera per attraversare egli stesso quella soglia che insieme accomuna e separa, che distrugge e ricrea in un continuum spazio/temporale che solo la vera e buona poesia può testimoniare. E noi, da lettori, siamo felici che il poeta ci mostri la sua casa e ce la faccia abitare con i suoi echi e con quella morte sempre truccata e mai così vera. In definitiva, Il tassidermista è, a parer mio, il libro più alto della produzione ultima dell’autore di San Mauro, proprio per via della sua incessante proposta “fotografica” che avvolge in un ritmo sempre vigile e alto. Libro che commuove per la sua netta “geografia” ergendosi a catalogo di un sopravvissuto, in questo quadro “biviale” che sbanda tra i territori di una parte “di confine” d’Italia, quella Lucania rimasta nel limbo della propria inerzia. Alfonso Guida nomina, come in una liturgia continua, i luoghi delle sue morti quotidiane. E lo fa con parole secche, catalogando ciò che vede, ma soprattutto ciò che sogna, o che si svolge nel parallelo della miserevole vicenda umana, con un ritmo che tende al prosastico, sempre per via di quest’ansia barocca, che condensa comunque il verso e lo fa elegia, parola annunciata per davvero, che si stacca per essere evocazione e non solo enunciato. Allora ecco che le cose, le forme umbratili, i paesaggi intravisti diventano chiari. Il bosco di Guida prende respiro e ci offre immagini di altri tempi e di altri segni, attraverso la periferica di un occhio lucido, aprendo la vista su di un tempo fatto di elementi naturalissimi e originari. Ed è proprio l’origine ciò che in Guida pare non avere mai riposo. Lo scavo allora si fa inderogabile, ogni momento è assoluto, la pregnanza del mistero ramifica finanche la situazione più ordinaria. Proprio per questo, una tra le peculiarità migliori di Guida è che la sua ossessione non ha ridondanza. Non stanca, alla lettura, la premonizione del poeta, poiché si nutre di un territorio fertile e crudele. È piuttosto una preghiera ferma sul precipizio, la sua poesia, oscillante tra il perdono e il desiderio, quasi necessario, di abbeverarsi alla fonte del male. Il tutto avviene in un pensiero “universale”, fatto di fitte voci, in un dialogo presunto con “l’altro”, come se Guida ci parlasse da postumo di se stesso, da un territorio parallelo, come se dialogasse appunto con i morti, i suoi cari morti, i poeti e le persone che si sono tanto amate e che si mostrano intermittenti, vicine e lontane allo stesso modo. Il palpito è quello di una mente vacillante ma aperta al lutto costante della “transumanza psichica”. Dove per ogni nuova scoperta, c’è un addio irriverente. Una poesia vitale, quella di Alfonso Guida, e nuda, che non offre scampo dalla vita, proprio perché il solo scampo da questa è la vita stessa. (Il destino del dono è cadere / come la spiga che resta nel campo / come il frutto nell’orto).



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