Il colore del paradosso: leggere Rosa Pierno
Serve uno sguardo acuto e disincantato per affrontare Paradossale Cromatico Trattato di Rosa Pierno, un libro dalla struttura originale, capace di reinventare il modo stesso di parlare dei colori. Un pizzico di leggerezza – e magari anche di ironia – non guasta di fronte a un’opera che gioca con il linguaggio e con le percezioni, trasformando la teoria cromatica in un’esperienza viva e imprevedibile.
Dal preambolo emergono indicazioni preziose sul tono e sulle intenzioni del libro. Anzitutto viene affermato che non esistono regole esterne d’interpretazione, ma un’ermeneutica interna, un gioco linguistico che si snoda nel labirinto cromatico. La discontinuità si manifesta per salti, contraddizioni, fratture e improvvisi slittamenti di senso. Già il titolo espone un’estetica del “paradosso”, dove i nodi disgiunti diventano strategie stilistiche. Tuttavia, l’autrice non aderisce pienamente ai sistemi retorici o filosofici con cui dialoga: li attraversa, li manipola, li mette in scena con ironia e sapiente leggerezza. Il preambolo, infatti, avverte il lettore che non troverà un “manuale dei colori”, ma un testo sperimentale che sovverte la forma del trattato per dar vita a una teoria immaginaria, graffiante con grazia, ironica e al contempo poetica. In questo gioco di ribaltamenti, ogni colore non è definito ma contraddetto, in perfetta coerenza con il metodo paradossale annunciato fin dall’inizio.
La difficoltà - o forse l’inutilità - di cercare l’“essenza” dei colori risiede nel fatto che essi incarnano l’instabilità stessa della percezione, ovvero ciò che muta con la luce. Sono illusioni concettuali, sovrastrutture intellettuali, come se, per comprendere davvero il mondo sensibile, fosse necessario spogliarsi delle categorie astratte e, naturalmente, dai preconcetti. I colori non possiedono una natura stabile, cambiano continuamente e “sembrano piuttosto inaffidabili”. L'etimologia della parola colore viene dal latino colorem, quindi celare, nascondere, velare, sicché si rivela un potere estetico e seduttivo del termine: il colore nasconde, inganna, camuffa. Possiede un potere illusorio. Diventa così emblema della doppiezza, del fascino ingannevole, dell’apparenza che attrae ma non rivela.
L’effetto complessivo del testo è quello di un discorso sapienziale, dove la riflessione razionale e la tensione poetica si intrecciano armoniosamente. Il colore, sfugge all’analisi razionale e invita a un diverso tipo di conoscenza, più empirica, intuitiva, estetica.
“Se l’esperienza è guidata da una sensibilità colta, avvezza all’uso dei pigmenti, le cromìe non conservano più alcun mistero: occorre solo inventare nomi a profusione”. Per Rosa Pierno l’enigma, non risiede nei colori, ma nel linguaggio, come suggerisce il capitolo Parole tinte e ritinte. Il mistero non appartiene alla realtà percettiva, ma alla difficoltà di tradurre le sfumature in parole. È una riflessione che riecheggia Wittgenstein: i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo. Se non possediamo le parole per dire di una sfumatura, essa ci appare ineffabile, enigmatica.
L’enigma del colore è dunque un mistero linguistico, mentre la percezione cromatica resta continua, mutevole, sfumata. Chi lavora con i colori (un pittore, un restauratore, un artista) sviluppa un linguaggio interno e una memoria sensoriale capaci di colmare l’incongruenza tra parola e percezione.
Per questa “sensibilità colta”, il colore non è più “segreto” ma materia familiare, controllabile, nominabile. Si passa dall’enigma linguistico alla maestria sensoriale: il mistero si dissolve nella pratica. Se il problema è linguistico, la soluzione consiste nel creare nuovi linguaggi.
Inventare nomi significa espandere il mondo. Ogni nuovo nome dato a una sfumatura è un atto di creazione, un ponte tra percezione e pensiero. L’artista (o il poeta) è colui che dà parola all’indicibile, che rinnova il legame tra linguaggio, percezione e conoscenza estetica.
Non vediamo contorni o campiture omogenee quando osserviamo la lontananza, ma un continuo frangersi di tinte, uno sciame di minuscole scaglie di luce. Il contorno è una costruzione mentale: le forme emergono solo per contrasto, per differenze di luce, colore, distanza.
Questa intuizione si accorda con gli Impressionisti e con la psicologia della Gestalt: il cervello “inventa” i bordi per ordinare il caos visivo, ma in natura tutto è gradazione, fusione, transizione.
Più lo sguardo si spinge lontano, più le forme si dissolvono, i contorni svaniscono, i colori si confondono. La realtà è un pulviscolo luminoso, un mosaico vivente: un flusso continuo che impariamo, lentamente, a vedere.
Quanto detto trova compimento nei primi capitoli del Paradossale Cromatico Trattato di Rosa Pierno. Per proseguire il viaggio, conviene lasciarsi guidare da Alice al di là del colore, compiendo salti mirabolanti avanti e indietro, come farebbe un bizzarro Bianconiglio dopo aver scoperto che “al di qua non c’è nulla”.
Forse, però, questo itinerario ci riporterebbe alle origini, là dove “Rosa” (Pierno) “è il colore della rosa rosa”. E allora si corre come un fiume agile dalla sorgente alla foce, fino a non vedere più la forma, perché ciò che si disvela è piuttosto “…un mondo tinto e ritinto. Interminabilmente. Si vede soltanto l’armonia finale. La forma sembrerebbe un pretesto, ma è, in realtà, irrinunciabile. In seconda battuta si vede il pigmento, la pasta oleosa variamente diluita, la materia, la maniera con la quale è distribuita col pennello. Allora il mondo riappare senza che mai fosse scomparso”.
La fascinazione che questo libro induce nel lettore sta nell'invenzione, garbata e sciolta, che ci propone l'autrice nel dire dei colori in termini assolutamente singolari. Esegeticamente Pierno va oltre la superficie, attraversa il significato profondo, allegorico, nascosto dei colori. Indaga e compara inventando significazioni quasi esoteriche, ottenute tramite processi e strumenti che vanno oltre il razionale. Ciò facendo, la sua analisi innovativa si espande fino a sorprendere il lettore, trascinato in un mondo fatato, tinteggiato da colori “nuovi” che muovono sensazioni finora sconosciute.

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