Il parto delle stelle
Elio Scarciglia, Duomo di Pisa, particolare

Il parto delle stelle

diLoredana Semantica

Non aveva una casa grande Ludovico, ma la percepiva come una reggia. Un luogo sicuro dove custodire libri, sé stesso e altri tesori. Fuori c’era il sole, la confusione della gente. Il primo abbacinava, l’altra aggrediva, lui non reggeva quella vorticosa dinamica di voci, suoni, stimoli. Quanto più preferibile il silenzio del suo rifugio.  Il suo angolo di studio, di lettura, di scrittura. Una scrivania in legno scuro con le cassettiere traboccanti di appunti, libri, documenti. Libri sul piano, sulla stampante, libri nella libreria alle sue spalle. Aveva dedicato molto tempo a alla selezione e all’acquisto, a ripartirli negli scaffali, in ordine per tipologia di pubblicazione e  per autore. C’erano saggi, libri scolastici, narrativa, manuali specifici su giardinaggio, gatti, pietre preziose, cocktail, vini, cucina, tutti interessi coltivati da Ludovico in passato. La sezione più ricca era la poesia, c’erano talmente tanti libri che Ludovico, dopo che i figli erano andati via di casa, aveva utilizzato anche la “stanzetta”, così avevano sempre chiamato la loro camera, per contenerli. Aveva disposto tutt’intorno librerie bianche che, col verde acqua delle pareti, rendevano il luogo simile a un’oasi. Al centro della stanza una comoda poltrona a geometrie romboidali nei colori verde, giallo e blu, a fianco della poltrona un tavolino d’appoggio in teak e una piantana in allumino nero la cui lampada era dimmerabile. 

Nel pomeriggio Ludovico si era ritirato nella stanzetta, dal volume “Tutte le poesie di Montale”, stava leggendo una poesia che non conosceva.


Esitammo un istante,

e dopo poco riconoscemmo

di avere la stessa malattia.

Non vi è definizione

per questa mirabile tortura,

c’è chi la chiama spleen

e chi malinconia.

Ma se accettiamo il gioco

ai margini troviamo

un segno intellegibile

che può dar senso al tutto.


Si chiese quale potesse essere nel testo il segno che spiegava tutto. E dopo essersi fatto la domanda, fornì a sé stesso anche la risposta. È la parola, che viene incontro al poeta, che lo raccoglie dal luogo cupo dell’abbandono, lo preleva dalle vette di un volo altissimo e vira in picchiata nel cielo bianco che quasi uccide. La parola ch’è segno, che aspetta solo d’essere modellata, di prendere forma nello scritto, plasmata. Veicolo di suono e senso, dona il pensiero, lo doma, rende l’oscurità intellegibile. 

“La stessa malattia” è il disagio esistenziale – proseguì le sue riflessioni Ludovico - chissà quanti poeti ne sono afflitti, certo sono in buona compagnia. Sorrise nel pensarsi poeta. Così schivo e rinchiuso nel suo mondo, nessuno sapeva che scriveva poesie, tranne Eliana, sua moglie. Una santa donna che lo sopportava in tutte le sue stranezze. Principalmente in quei momenti di profonda inerzia, di stanchezza invincibile che spesso lo prostravano. L’accidia è un brutto vizio che da un lato sfianca, dall’altro regala quella sensibilità necessaria allo scavo nel profondo a cercare quel “comune a tutti gli uomini” di cui parla Caproni. E le poesie cosa sono? - si chiese Ludovico - e all’impronta s’inventò una similitudine: sono perle portate alla luce dagli abissi per farne dono. Scriverle sì, ma solo se necessario, e sempre con senso di responsabilità e rispetto per la poesia, applicando talento, esercizio e intelletto, perché diventino armonia di suono e senso, grazia composta perfetta, vera arte. Pensava queste cose Ludovico, quando, come un flash, gli tornò in mente l’altra poesia, sempre di Montale che tanto bene descrive le mal de vivre. La cercò nel libro che teneva tra le mani e la rilesse.


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.


Dopo la lettura Ludovico espresse mentalmente sue considerazioni. Come descrive bene il poeta quella malinconia che lo pervade, ch’è al tempo stesso maledizione e cilicio, indifferenza al bene e al male che non assurge nemmeno alla catarsi del cinismo e resta lì, come una crocifissione. I chiodi ai polsi, l’accartocciarsi di una foglia, l’introflessione, l’effigie di marmo di un corpo che langue senza provare collera e nemmeno gioia, nel pomeriggio di un giorno che cerca nuvole e falchi e vola, nel grido disperato, sempre più alto.

Che indicibile consolazione rappresenta la poesia e che tristezza che molti non capiscano il suo valore, la preziosità di un testo meravigliosamente composto, che dia alla lettura il senso di assoluto, come un balsamo di vita.

Certo Montale è un maestro, ma a leggere la Romagnoli si resta come rapiti.  Prese il volumetto de “Il tredicesimo invitato”, una rarità acquistata dopo lunghe ricerche e a caro prezzo, e lesse.


Grazie – ma qui che aspetto?
Io qui non mi trovo. Io fra voi
sto come il tredicesimo invitato,
per cui viene aggiunto un panchetto
e mangia nel piatto scompagnato.
E fra tutti che parlano – lui ascolta.
Fra tante risa cerca di sorridere.
Inetto, benché arda,
a sostenere quel peso di splendori,
si sente grato se qualcuno casualmente
lo guarda. Quando in cuore
si smarrisce atterrito “sto per piangere!”
E all’improvviso capisce
che siede un’ombra al suo posto:
che –entrando- lui è rimasto chiuso fuori.


Che peccato - considerò Ludovico al termine della lettura - che Fernanda da molti non sia conosciuta, anche lei afflitta da disagio esistenziale, produceva poesia alta, elegante, assoluta. Ludovico, leggendola per un attimo era stato strappato dal suo torpore umorale, come se penetrasse in un tunnel mentale uno spiraglio luminoso. 

Le ombre intanto si allungavano nella stanza, dalle tende appena accostate penetravano gli effluvi quasi estivi, il fiore di pittosporo primeggiava tra gli altri profumi, in gara col caprifoglio. Era arrivata la notte, quando per Ludovico arrivava anche la magia che lo trasfigurava.  

Allora non era più l’anima in pena che ciondolava inconcludente e malinconico, si metteva seduto davanti al pc e digitava rapidamente sulla tastiera. Sembrava fosse trasportato fuori dal lì, proiettato fuori dal mondo, in un altro universo. 

Solo quando aveva finito Ludovico rileggeva, e si chiedeva stupito per primo lui stesso, come avesse potuto partorire quello scritto, da quali anfratti della mente sbucasse l’estro, chi avesse guidato le sue mani, dubitava persino che quei segni fossero proprio suoi, ma fossero invece prodotto di qualcun altro, erano qualcos’altro: il parto misterioso e segreto delle stelle.


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