Il seme del giorno di Rossella Renzi
Alberto Cini - Grande

Il seme del giorno di Rossella Renzi

diCarlo Ragliani

Il seme del giorno (L’arcolaio, 2015) di Rossella Renzi non raccoglie semplicemente l’esperienza poetica (già strutturata e quindi rintracciabile nell’opera precedente) della figura originaria della madre che si istaura come misura delle cose, e come sostanza delle stesse. Anzi, il senso di maternità che si imprime nel dettato si concretizza, viene coagulato e si arricchisce di tutti quei significati che erano sottaciuti perché intrinseci al dettato, e di cui era all’oscuro l’autrice stessa, che emergono e si dispiegano come fondanti di una poesia tutta intrisa di una intimità umanissima.  

Per questo, ogni poesia contenuta nell’opera è da intendersi piuttosto come epifenomeno di una tracciatura del quotidiano, il cui segmento si interpola al successivo per determinare un disegno ben più complesso a cui la nostra protende tutto l’ascolto di cui è in grado.

Già da titolo, l’opera potrebbe ricordare Il seme del piangere di Giorgio Caproni; tuttavia, se in questo si assiste ad una versificazione in cui l’autore celebra un sentimento archetipico verso la madre defunta, l’opera di Rossella Renzi celebra e consolida un significativo accoglimento della realtà come partecipazione alla vita.

Questo perché, se è vero che l’amore filiale si manifesta con la ricorrenza di una costante antropologica nelle culture dell’antropocene, lo stesso può dirsi dell’amore materno - sia questo in quanto determinante nella maggioranza dei casi del primo, sia invero questo il suolo fertile da cui può nutrirsi la semenza della reciprocità fino a fruttare.  

Nei sei anni di silenzio che l’hanno coltivato, il germe, e dunque la promessa in questo custodito, si sono istaurati certamente per divenire prodromici alla primizia della poesia; e non si può escludere che questa informi l’atto più congruo nell’intensità e negli intenti dell’autrice.

Perché questa non si può distaccare né discernere dall’io poetico, così come la penna non si può separare dalla mano che la impugna, parimenti nel dettato è complesso configurare una distinzione fra ciò che sia vita umana, e quanto invece sia vita animale ed animata, seppur vegetale. 

Ma, al di là di quanto potrebbe donarsi come esercizio analogico (e simbolico) per cui siano più cose poste assieme a strutturare un rapporto di somiglianza fra queste nel loro specchiarsi negli umori della mente poetica, ciò che passa dallo scritto è sicuramente il senso profondamente percepito dell’esistenza, non già come esperienza biologica, o mera somma delle parzialità che compongono la globalità dell’esistente.  

Perciò il vero elemento a cui attinge il dettato di Renzi si dimostra come esperienza del sacro, il quale - passando talora per le forme della cristianità, talora nutrendosi di un ben più profondo respiro panistico - ci viene tradotto nell’opera come Pneuma (il fiato della vita che porta alla vita), e come il vero ed unico valore da custodire nelle forme da cui questo è ospitato.

Nel complesso metrico questo libro rappresenta una raccolta dall’equilibrio notevole e si insignisce di una riflessione stilistica che rende il verso quasi disteso e meditativo, in cui l’autrice realizza una prosodia ponderata, nel pieno rispetto della parola poetica. 

In quest’ottica la narrazione si impreziosisce di un impegno formale che è protesa all’attenzione ritmica ed eufonica del dettato, dispiegandosi tendenzialmente - seppur con l’ausilio dell’espediente della dialefe in certi casi - nelle forme dell’endecasillabo e del settenario. 

E con la medesima cura d’amore di cui è depositaria la donna, l’autrice sembra porsi come depositaria del segreto essenziale delle cose e del loro silenzioso essere costellato di fragilità; per questo lo sguardo dell’autrice si concentra per contemplare la fiamma più intima dei singoli epifenomeni della realtà, e l’anima più sacra che solo se conservata può aver modo di poter esaltare la propria potenza in esistenza.

Per queste ragioni l’opera poetica di Renzi si immerge continuamente, per poi risalirne come canto, nell’acqua profonda in cui si abbevera ogni elemento che compone il vero; e in quest’atto di infusione, la voce della nostra si imbeve della forza umanissima di poter resistere alla stortura per maneggiare gli eventi che si incardinano nel tempo, e per sopportarne anche il lutto più angosciante.

Accogliendo perciò ogni singola parte di quel che si può dire esistenza, per ospitarne il nucleo pulsante e più oscurato; a questa dialettica – o meglio, a questa osmosi per cui da interno si produca all’esterno – obbedisce la versificazione: dalla sfera degli affetti familiari al continuo stupore nei confronti qualcosa che è appena oltre il visibile, alla perizia di ricucire i brandelli e di covare quest’eredità di fragili umanità, e passando per la continua e incessante dedizione alla bellezza sacrale (purché fragile) dell’esistere mortale, il verso si assottiglia e si consegna, auspicando la medesima accoglienza che questo offre, al lettore.

E saranno il dettato unicamente, e la volontà tanto di accogliere la vita della realtà quanto di ascoltarne il respiro, capaci di amplificarne la vitalità e la mortalità, quanto le vicinanze e le distanze che sembrano tratteggiare la trama della scansione temporale che si concentra nel vedere oltre, per comprendere ciò che si compie “sulla soglia della terra”. 


Solo il canto degli alberi al mattino
racconta piano di una pace assente
risuona come un organo scomodo
si muove lento come un seme aggiunto.

*

Al gelso antico di San Giovanni

A te vengo come ad un tempio
come una vela bianca trasparente
con questa lingua pulita
nelle mani porto latte e miele.

A te vengo come il vento alle spalle
accarezzo il tuo tronco ferito
mentre cade la prima pioggia
dico piano la mia preghiera.

*

Sei caduto per caso
e qui sei nato.
Raccontami ora
del sacro che abbraccia anche gli alberi
nati per disciplina
nati per il dovere della sete.

*

Camera a sud

Viene oggi la colomba, mi tiene
tra le ali infiamma le mie mani,
come un rito del sangue
nutre la nostra chiesa.

*

(Autoritratto)

Conduce il mio profilo questo suono
di violino che tagli il silenzio
abbraccio lo sguardo
fragile come un velo di sapone.

Qui resisto come una macchia
confusa, con la riga sulla pancia
che mi fa donna, lievito, radice.
Ora che la metamorfosi è compiuta.

(febbraio 2014)


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