Il taccuino nero di Riccobene
Paolo Menduni, Napoli è

Il taccuino nero di Riccobene

diFloriana Coppola

 Ballate nere di Diego Riccobene, libro di esordio, complesso e altamente provocatorio. Un linguaggio sperimentale e neobarocco che utilizza la parola con sapiente padronanza di arcaismi e neologismi, forzature sintattiche e formule che richiamano atmosfere gotiche e macabre. Libro che si ispira al decadentismo francese ma che risulta ultracontemporaneo. Si respira tra le pagine un’aria di Scapigliatura postmoderna e maledetta che stordisce. Silloge che con caparbietà destabilizza ogni buon sentimento e che gioca con l’intero immaginario luciferino in una danza infernale che cattura e affascina, vittima di un’indolenza ammalata. Non si può leggere la pagina di Diego Riccobene senza sentire la sua voce registrata su youtube, mentre recita alcuni suoi brani tratti da questo testo. Ricorda nella sua interpretazione attoriale, ben studiata e accorta, la forza magnetica di Carmelo Bene e l’acerba voluttà di Claudia Ruggeri. Poesia in scena, poesia drammatica letta quindi ad alta voce, con magistrale abilità.

Io credo nell’iniqua malasorte, nel taccuino nero / che l’atropo costeggia/ coi palpi torti in acherontee lagne / divincolando il corsaletto denso/ marcato dalla Morte
– che sia un Suo pretesto? –/ finché quella maliosa si consumi / tra conopei richiusi su un’altana; / che presto si depauperi/ il fiato e nell’ambascia
il giorno svella flaccide sporgenze / fortore dissipando su losanghe;
nelle fatture sporche / in mosto e malto, oblate/ con fitte al reclusorio d’alto ventre, / è questo il segno del soffocamento. / M’incappia e stringe, giuro:
ordura di chi ha in sprezzo / le glutinose lische di demenza

in lunghe processioni zingaresche, / il vilipendio al senso / che per poco s’addorme / tra branche d’una culla in pentafilli.

 

L’immaginario semantico di Riccobene saccheggia, con sublime intenzionalità, l’inferno dantesco e qualsiasi altro sito (non luogo) infernale. Gioca sprezzante e lugubre con il campo linguistico della morte e del mondo angelico decaduto. Senza nessun spiraglio di luce ma tastando un intero territorio arcaico e ancestrale, cerca un Altrove, senza mai raggiungerlo, destino dannato per l’umano sentire, anzi percepisce e rimanda con grande sensibilità quell’afrore di stagnante putrefazione che precede la fine. 

Pigrizia ereditata, membra biosce, / consunto il petto da un’estate torva,/ il tempo non è mio, il maledetto / sotterra il passo storto nel silenzio, /mi sfugge catarrale dalle gerle arabescate per esequie spurie, / dagli urinali acconci a cornucopie. / Parletico, il mio gesto non si inselva nelle sentine cave con baldracche / a lutto, rimasugli e ricordanze: /il suolo mi ha sottratto in ignominia / il reliquario con sequele atroci / miniate da un omuncolo di ferro /che m’illudevo fosse consanguineo. /E adesso? Non si sente che il seccore /strozzato nelle organdi d’una stanza di cui sono fittavolo ab aeterno. / Viluppo il mento nel melenso vacuo / (un nevermore gracchiato non lo innalza, benché siffatti orpelli siano schietti oltraggi a baronìe spezzanembi): /espleti flagiziosi di placenta / dischiavano un aguzzo mezzogiorno / che per l’inetto è notte di materia.
L’ekkòlapsis tra i venti è frutto mezzo /in questo nostro rito ripugnante.

Un io dannunziano e crepuscolare lo travolge, preso dal furore filologico del verso, stretto dalla versificazione che musica ogni rigo con rigore assoluto tra settenari giambici  e endecasillabi colti e arguti, usando un vocabolario inusuale, non certo di uso popolare ma di coltissima erudita fruizione. Il recupero lessicale di noir poetico che riporta indietro, fino alle atmosfere tardo gotiche dei poeti maledetti. Un noir ancora più asfissiante per questo orizzonte tanto orizzontale e funereo, simbolicamente soffocato da una visione distopica universale.

L’io poetico sembra travolto da un’immaginazione incandescente ed esplosiva che accumula fotogrammi surreali. La parola sonda l’inconscio e si spinge nelle tenebre della mente. Una vertigine lessicale di simboli che genera una cattedrale di altri simboli, un caleidoscopio inarrestabile che stordisce e cattura, come la visione di un film horror. L’orrido opulente e ricchissimo diventa magnetica affabulazione, che costruisce la visionarietà di un incubo a occhi aperti. Il nero costituisce il fondale di questa peregrinazione apocalittica in un altrove luciferino.   

La piccola ha mangiato / la testa di un’allodola. / Il gaio volto splende, / cornice pura d’occhi
in guscio liscio e saldo, prosimetro del mondo; / i suoi capelli fiabe / deliziano i pidocchi,
di plastica un gioiello / adorna l’albo collo / chissà? dono nuziale / d’un giornalaio zoppo.

Cosa nasconde quest’accumulo ipertrofico di immagini simbolizzanti e sofisticate dell’immaginario mitologico / infernale?  Cosa cela questo linguaggio assolutamente fuori dal comune, dal quotidiano, dall’usuale, questa ricerca parossistica e ardita  della parola  inghirlandata da un repertorio lessicale caratterizzato dallo “slancio tonico verso il passato”? Carlo Ragliani e Mario Formularo, nei loro brillanti interventi che aprono e chiudono la silloge indicano in questa ricerca poetica una precisa direzione esistenziale e filosofica: “la celebrazione e il ripudio dell’oscuro nell’umano, la critica alla realtà contemporanea indecorosa e inconsistente, lo sfacelo che oggi recita l’umano”. L’orrido e il sacro si mescolano creando un effetto decadente e crepuscolare di stampo ottocentesco ma che si nutre di moderne apocalittiche visioni. Giorno e notte, luce e ombra, vita e morte. Dualismi mai sanati che sconcertano e inquietano.

Il martire ringhiava,/il sacro rigirìo si risolse/ bevendo la lisciva a brevi sorsi
da quella delittuosa colocasia; / fu quando udii le voci dagli azzurri/  che a valle mi stordivano
svillaneggiando lungo i miei ventricoli / fino al richiamo della procellaria. / E sono solo un ladro
a dirla tutta, adiaforo in latenza / che amò saziarsi di sembianza e croste / rimasticate in dies irae lunghi / come le pieghe d’una scolopendra, / un vaniloquio tale / da impaludarmi in ecfrasi e ghirlande, / intossicanti tare di pervinca.

 

Esercizio quindi ineluttabile di visionaria percezione della morte e della desolazione umana che ne deriva. Attrazione verbale e filosofica verso l’orizzonte funebre della fine, che si incarna e si incaglia negli elementi naturali, a volte di misura lessicale medica e erboristica. Ogni dettaglio viene denominato con precisa chirurgica esattezza, quasi un affiancamento lugubre della ricchezza contenuta in un antico dizionario ripescato. La lettura della silloge non può lasciare indifferenti ma appare come un unico poema che affatica e attrae. L’angoscia del vuoto è il tema sotto traccia che accompagna ogni testo. Tema che ci appartiene tutti e che ci interroga con spietata lucidità. Alla fine, rimane di questo sforzo ipertrofico del lessico una tristezza inappagata per quella luce introvabile e perduta, per una scintilla agognata di luce che viene sporcata e infangata dalla mistura atroce di impermanenza  e  mistero in cui siamo disperatamente immersi.


Ivo De Palma legge "Rito meridiano" da "Ballate nere" di Diego Riccobene

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