JABAL-AL-NOOR. La montagna della luce
Elio Scarciglia, 'I colori della mia terra'

JABAL-AL-NOOR. La montagna della luce

diLaura Lodico

Brucia ancora il fuoco attorno al quale abbiamo bevuto il vino, liquido vivente che ha fatto esultare le nostre menti. La memoria trova alcuni versi di Orazio, li bisbiglio mentre aggiusto un ceppo sulla brace: “Anfora…ti terranno con sé Bacco e, se vorrà giungere, Venere, e le Grazie restie a separarsi, e le vive lucerne, fin quando il ritorno del sole metterà in fuga le stelle.” Poco lontano il mare che confina Marèttimo è calmo. A noi esploratori arriva l’effetto benefico di ogni sua carezza sugli scogli. Il cielo riflette la luce del faro di Punta Libeccio, intervalli regolari, prima due lampi veloci, poi uno lungo e durevole. Fuoco, luce ed eclissi, segnali che traducono presenza, terra che interrompe il mare.

Dal paese esposto ad oriente, siamo arrivati, attraverso Punta Basano, all’estremo ponente dell’isola. Marèttimo da sud, da dove siamo venuti, si lascia guardare distesa: il profilo è dolce, i dettagli seducenti fino alla fascinazione. È un’impresa difficile percorrere a piedi il periplo dell’isola. In alcuni tratti la costa si mostra inaccessibile, ostacolo definitivo, e la montagna, lama che penetra il mare, sembra invalicabile. Ma la curiosità è la necessità di vedere, è un progetto che include la smania della conoscenza. La libertà è un esercizio leggero che insegna a non avere limiti, a scoprire i chiaroscuri nascosti, a dare forma e rilievo alle idee, a non barricarsi, a immaginare qualcosa che nessuno ha immaginato prima. E noi siamo curiosi. Ad occidente il sole ci ha accolti mentre colorava il suo letto; noi abbiamo preparato i nostri sopra la spiaggia di Cala Nera. Qui l’acqua limpida sembra fare da specchio alla vita del giorno che piano si spegne, il rimando è quello di un mondo liquido, materia che si scioglie. Domani riprenderemo il cammino, adesso è notte e dorme anche la montagna dei Barranchi. Cime, scogliere, precipizi, terrazze, burroni, abissi, pareti a picco, solchi profondi, fermi immagine che fissano fotogrammi di un mondo emerso che vuole essere esplorato. È lì che andremo a liberare gli occhi.

Sento Jacopo ridere mentre Michela bisticcia con il vento ed esprime a gesti la volontà di sistemare il sacco a pelo. Pini si è accomodato poco lontano da me, a ridosso di una pietra che sembra fissarlo. Bruno, Alberto e Adria non li sento più, il vento sposta le loro voci verso nord-ovest, verso i Barranchi.

Tutto intorno è buio, solo un chiarore nel cielo. Cerco il riflesso della luna e gioco con le ombre inventando disegni che il vento confonde. La leggerezza del sonno mescola miraggi e realtà, richiami e allusioni, dissolvenze e stacchi. Mi abbandono al sogno, ma un tocco deciso sulla spalla mi fa trasalire e tornare da un mondo lontano. Scruto il blu intenso della notte, accanto a me non trovo nessuno, eppure il peso sulla pelle era reale. Non faccio nulla, richiudo la cerniera del sacco e fisso il cielo.

Lo scirocco si è alzato, umido e fastidioso si appiccica su ogni cosa, mescola sabbie rosse, arpeggi e percussioni ovattate. Mani ambrate pizzicano corde bene intonate, emanano un suono che viaggia dentro le onde, dal ricordo di una Siria poco lontana fino alla punta più a ovest di Marèttimo che stanotte ci culla. Illusione o miraggio, poco importa; il canto arriva limpido: è la storia di una ragazza che va a pregare di notte Nigal, la dea della Luna, alla quale offre un cestino di semi di sesamo. Un inno alla vita e alla fecondità di cui sento l’intensità e l’armonia. 

Chiudo gli occhi. Sdraiata, il corpo sente la forza selvaggia della terra. Suolo che domani all’alba sotto i nostri piedi sarà roccia, sarà la pietra dei Barranchi che dal profondo del mare spinge in cima il tempo. Da millenni la montagna di Marèttimo guarda le gesta di chi si è avvicinato: naviganti, viaggiatori ribelli desiderosi di toccare il cielo dopo tanto mare. Esploratori curiosi di scoprire mondi diversi, pionieri che, aggrappati ad angoli di roccia appuntiti, sono arrivati dove l’aria è più fredda e l’orizzonte più vasto, assoluto. Lì, forse, incapaci di comprendere il senso di infinito, si sono nascosti dentro le grotte per cercare riparo, per comprendere come era possibile tenere le stelle sul palmo delle mani.

I Barranchi custodiscono il ricordo delle loro orme cancellate dal tempo, permane il suono attutito dei passi sui sentieri e il calore delle mani sulla roccia. Il passato può essere dimenticato, ma non muore mai. Ogni elemento resiste, modella i luoghi e determina il carattere di un popolo.

Quante lingue parla l’africana jabal, l’antica montagna spostatasi nel mare? Quali segreti coperti da strati di terra umida potrà svelare? L’acqua che dolce scorre dentro le sue vene ieri ha dissetato cacciatori, pellegrini, girovaghi, galeotti, soldati, pirati; oggi nutre il desiderio di sapere, irrora quell’indole indiscreta di mettere il dito tra le righe non scritte della storia e dentro la terra, cassaforte segreta. Quali tesori sono stati nascosti nei fianchi bui della montagna da corsari in fuga dopo avere assalito navi di mercanti? Gioielli dalla Barberìa, dobloni d’oro dalla Spagna, pietre preziose dalla Turchia, coralli dal Banco di Skerki, ricchezze sepolte e forse mai recuperate. Dov’è la mappa caduta dalle tasche di Khayr al-Dīn, il temuto Barbarossa? Quale sabbia ha scavato per seppellire il suo segreto?      

Di nuovo sento un tocco, un colpo brusco e sicuro, stavolta sul braccio. Mi sveglio. Pietrificata, improvviso un respiro lento che plachi il cuore. Non so cosa fare con la certezza che qualcuno nel cuore della notte cerca di scuotermi.

Smetto di pensare, mi sollevo di scatto sui gomiti e come dentro una trappola rimango impigliata nello spallaccio dello zaino che il vento aveva animato. In un attimo svaniscono immagini e tremori. Delusa, intuisco che non avrò alcuna storia di spiriti erranti da potere raccontare. Eppure questo luogo non mente, trattiene e rimanda l’intensità di vite imbrigliate, anime sospese, attaccate ad una terra che forse hanno scambiato per paradiso. Anime raccolte dal mare e devote all’isola che magari mi avrebbero narrato leggende originarie come questa che mi frulla in mente, in cui all’origine del mondo c’erano solo acqua e caos. Nel caos, tuttavia, si formarono tanti pezzi di terra dove crebbero alberi di ogni specie. Dall’interno di uno di questi, un gigantesco albero di ulivo cresciuto sul pizzo più alto della montagna, nacque un uomo. Si narra che al comando di una divinità forte e austera l’albero si aprì, l’uomo uscì dal tronco e chiese per quale motivo fosse solo. La divinità gli rispose di cercare l’acqua, lì avrebbe trovato compagnia. Così l’uomo si diresse verso il mare e dentro un anfratto ghiaioso, dove il sale del mare si mescola alla dolcezza dell’acqua terrestre, trovò una donna. Da allora, insieme, generarono una stirpe che non si è mai estinta. Questo pezzetto di terra era Hierà, l’isola nel cuore del mare Mediterraneo dove gente da ogni parte del mondo si sarebbe mescolata.  

Invento una storia, poi un’altra: i primi uomini, chi arriva, chi va, chi resta. Le immagini si sovrappongono e il sonno tarda.

Marèttimo risultò isola necessaria e gradita a molti, genti dopo genti hanno fatto di quest’isola un crocevia autentico. La terra restituisce e si svela: utensili in pietra levigata, punte di frecce in ossidiana, resti di patelle mangiate diecimila anni fa al riparo dentro le grotte, lo scheletro di una cerva rannicchiata dentro la Grotta del Tuono; frammenti, indizi che svelano segreti e rivelano misteri neolitici. Secoli dopo, sotto costa, grandi vascelli a tre alberi gettavano l’ancora e trovavano ridosso e tregua. Brigantini veloci, legni da corsa ingordi di brezze leggere e ben armati, carichi di malandrini e filibustieri davano caccia ai grossi galeoni spagnoli: un teatro barocco di mare e sopravvivenza. Poi moderne navi militari hanno trasformato le stravaganti guerre di mare in battaglie navali con cannoni a tiro rapido e siluri.

Quanti soldati spaesati avranno bussato alla porta del faro per trovare calore, oltre che luce?

Non sento più il crepitio delle fiamme, le folate di vento spostano solo l’odore della legna bruciata che continua ad offrirmi il senso del calore. Avverto un’atmosfera ancestrale dove un tempo, attorno al fuoco, nuclei di uomini e donne trovavano comunione e protezione.

Il fuoco questa sera ci ha donato ancora meditazione e confronto, energia e avventura. C'è del fuoco in ognuno di noi, è formidabile spinta ma è anche luce, quel chiarore che stanotte, lì dove a Marèttimo tramonta il sole, ci serve per trovare il varco.

Ad ovest è il regno del buio. Gli antichi sapevano che oltre lo stretto di Cadice non era possibile recarsi e proprio in quel punto Ercole aveva posto due colonne ad indicare il limite oltre il quale nessun mortale poteva ardire di andare. Lo sapeva anche Ulisse, lo sapevano i suoi uomini, ma la fiamma dello spirito di Odisseo era troppo grande per arrestarsi davanti a quel confine.

Anche noi, adesso, siamo ad occidente, «di retro al sol» che domani schiarirà il cielo.

Stanotte mi fingo Ulisse e con il sogno inizio l’avventura tracciando l’orizzonte negli occhi. I Barranchi, impasto di nuvole e rocce, restano immobili e stupisce lo spazio invaso dalla loro luminosità.

Essi stessi faro, galleggiano leggeri, mostrano la via e osservano le rotte della storia, linee che disegnano paesaggi vivi.

Non trovo più la luna, vagabonda in un cielo adesso lattiginoso, si è nascosta per lasciare fluttuare i pensieri dentro un miracolo di colore: chiarezze velate, astrazioni effimere lasciano affiorare emozioni semplici. C’è una commozione forte che fruga alle porte del mio spirito; al mattino i sentieri penetrati dal sole si faranno cammino, passaggio fragile sotto i nostri piedi, varchi profondi.

La bellezza è difficile, oppure può essere la cosa più facile del mondo. Il piacere sa rendersi impalpabile, vivere per un istante, scomparire e rinnovarsi: in questo risiede l’impulso all’avventura e la delizia della scoperta.

Fùsis dicevano i greci per chiamare la natura e indicare in essa un pullulare di presenze vive, ognuna delle quali ha un nome e una caratteristica divina. Fùsis è Marèttimo, l’esatto contrario di un mondo privo di magia.

È quasi l’alba. Mentre piego il sacco a pelo i colori riacquistano tono. Controllo il fuoco ormai spento, il carbone sembra bagnato, zuppo di scirocco e salsedine. Ne afferro un pezzo e sul lato di una grossa pietra disegno sette sagome dentro il profilo di una montagna. Un’immagine di noi disegnata con istinto preistorico attesterà il nostro passaggio da qui. Adesso è ora di andare. La montagna aspra con l’anima dolce ci ha appena aperto le braccia.



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